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 2016  giugno 28 Martedì calendario

Così la Corte Suprema, in toga di taffetà o collare di pizzo, ha scritto la storia degli Usa

 
Alto trenta metri e largo cento, American Partenone nel cuore della capitale Washington, il tempio della Corte Suprema degli Stati Uniti sta come una diga di marmo bianco eretta contro le tempeste e le maree che investono e cercano di distruggere la democrazia americana. Nel silenzio sepolcrale delle sue stanze, dal 1935, l’anno in cui finalmente l’edificio fu completato e i nove “Supremes” – oggi temporaneamente otto dopo la morte improvvisa di Antonin Scalia – trovarono una sede permanente dopo 146 anni di vita randagia, è stata scritta e cambiata più Storia della società americana di quanto Presidenti e Parlamento abbiano saputo fare.
Dallo schiavismo alla libertà di informazione, dal diritto di aborto alla pena di morte, dalla discriminazione razziale fino alla “elezione” di un presidente, George W Bush nel 2000, decisa proprio da una sentenza a minima maggioranza di cinque voti a quattro, le sentenze della Corte Suprema hanno segnato la resistenza e l’evoluzione, i mutamenti e le ansie, le paure e le speranze di ogni generazione di americani dal 1789 a oggi. Per un salario annuo di 244 mila dollari, 254 mila per il giudice capo John Roberts, i magistrati in toga nera e collare di pizzo che le guardarobiere custodiscono e ricuciono con la devozione di una curia cardinalizia, sono l’unica istituzione americana completamente, irreversibilmente insindacabile. E inamovibile, poiché soltanto la morte, la malattia, l’estrema vecchiezza o la destituzione per “impeachment” – mai avvenuta in 227 anni di esistenza – possono schiodarli dai seggi di noce.
Se il presidente è il sovrano pro-tempore della Repubblica, simbolo e incarnazione della continuità politica degli Stati Uniti, e il Congresso è il cortile dove la nazione si azzuffa, si confronta, si contorce e si conta, la Corte Suprema è l’arbitro definitivo. Per questo il presidente Taft che ottenne dal Parlamento i 9,74 milioni per costruirla volle che nella retorica del palazzo fosse rappresentata la solennità della Costituzione, adornata dall’immancabile folla: Mosè, Solone, Giustiniano, Re Giovanni della Magna Carta Libertatum, la storia della Giurisprodenza. Una costruzione che cominciò con il piede giusto perché, in piena Grande Depressione il costo finale del tempio fu inferiore – miracolo – al preventivo e l’impresa restituì nove mila dollari al Tesoro.
L’atmosfera che si respira oltre le otto colonne corinzie del pronao – otto quanto le colonne del Partenone ad Atene o del Pantheon a Roma – è più simile a quell’intimidito misticismo ieratico che trasmettono, almeno prima dell’avvento di Francesco Papa, i marmi barocchi del Vaticano che a un’istituzione laica. L’immagine che i magistrati, chiamati “Justice”, loro giustizie, è ieratica e riserva i momenti di relax alle riunioni “in chamber”, negli uffici privati, dove alcuni di loro non disdegnano qualche bicchiere di whisky con i propri colleghi o assistenti. Attorno ai cardinali della Costituzione, ruota una costellazione di sacrestani, i “law clerk”, i giovani avvocati che i giudici ingaggiano e schiavizzano per il massacrante lavoro di preparazione dei casi nella biblioteca con 500 mila volumi e sono ormai arrivati a 109, undici per ogni “Sua Giustizia”.
Come disse Antonin Scalia, il primo giurista italo americano a esservi chiamato, la Corte Suprema è il club più esclusivo del mondo. Lasciarlo, come dimostra il caso di Ruth Ginsburg che a 83 anni, ridotta dalle cure e dalle malattia a un cardellino, non molla, è dolorosissimo, anche più difficile che entrarvi superando l’ordalia della nomina presidenziale e poi del Senato che frigge i candidati nella pentola della partigianeria. Ma nulla, per uno studente di Giurisprudenza affranto sui testi, vale il sogno di essere chiamato un giorno sugli spalti della diga di marmo, a difendere la Costituzione, in toga di taffetà di seta e, per le signore, collare di pizzo.