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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

Il tramonto del federalismo fiscale

Non è solo mia opinione che la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione, aggiunta alla regola costituzionale del pareggio di bilancio, avrà l’effetto di ridurre fortemente l’autonomia tributaria regionale e locale. Essa prevede, diversamente dal testo oggi ancora in vigore, che gli enti sub-statali stabiliscano i tributi esclusivamente secondo «quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario».
Nel testo attuale, invece, la formulazione è «secondo i principi [fondamentali] di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» stabiliti dallo Stato. La riforma interviene, poi, sull’articolo 117, allargando – come da tutti richiesto – l’elenco delle competenze legislative esclusive dello Stato, eliminando anche la competenza concorrente e riconducendo la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario alla competenza statale esclusiva. Nel contempo, non tralascia di specificare che il contenuto essenziale della potestà legislativa regionale residuale è dato «dall’interesse regionale alla pianificazione e alla dotazione infrastrutturale del territorio regionale e alla mobilità al suo interno, all’organizzazione dei servizi alle imprese, dei servizi sociali e sanitari e dei servizi scolastici nonché dell’istruzione e la formazione professionale».
Riguardo a questo quadro normativo del nuovo federalismo fiscale che sarà sottoposto al referendum di ottobre, viene spontaneo porsi una serie di domande: se la competenza legislativa primaria della Regione resta residuale e, perciò, le materie non ricomprese tra quelle di competenza statale devono restare di sua esclusiva competenza, che senso ha la successiva specificazione ora ricordata, fatta in un nuovo comma dell’articolo 117, secondo cui la Regione, nell’esercizio della sua potestà residuale, deve pur sempre avere riguardo solo all’interesse regionale relativo ai servizi e valori di rilevanza territoriale? Questa specificazione costituisce un ulteriore restringimento della competenza primaria regionale, nel senso che anche la potestà legislativa della Regione non è del tutto residuale e, comunque, deve riguardare solo quelle “sue” materie aventi per oggetto la tutela (“salvaguardia”) di interessi ritenuti di stretta pertinenza regionale?
Sul punto specifico dell’autonomia tributaria, viene da domandarsi: come si interpreta il 2° comma dell’articolo 119, secondo cui i tributi propri non sono più stabiliti (e applicati) dai Comuni, dalle Città metropolitane e dalle Regioni «secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», ma secondo quanto disposto direttamente dalla legge dello Stato ai fini di detto coordinamento? E come si interpreta, ancora, il 2° comma lettera e) dell’articolo 117, che, a seguito dell’eliminazione dell’attuale 3° comma, attribuisce alla potestà legislativa statale «tutto il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» e non solo la fissazione dei principi fondamentali di coordinamento?
E ancora: può ritenersi che le Regioni mantengono la loro attuale autonomia tributaria nel senso che esse possono continuare a stabilire i loro tributi propri nel solo rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato (come consente il testo vigente dell’articolo 119, pur nell’esistenza del divieto della doppia imposizione) e non, volta per volta, previo il coordinamento dello stesso Stato, come sembra vogliano letteralmente i richiamati articoli 117, lettera e) e 119, 2° comma? In altri termini, la previsione del mero coordinamento statale del sistema tributario può interpretarsi nel senso che le Regioni avrebbero pur sempre, ai sensi della legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, un margine di autonomia tributaria piena nel senso sopra indicato?
Se la risposta a questa sfilza di interrogativi fosse, come temo, nel senso (negativo) che ogni tributo proprio della Regione dev’essere comunque “derivato”, e cioè sempre stabilito da una legge statale e solo istituito da una legge regionale, ciò significherebbe fare un anacronistico passo indietro a prima della riforma del 2001. Significherebbe cioè che, quantomeno ai fini tributari, si reintrodurrebbe la regola della gerarchia delle fonti in luogo di quella di competenza stabilita dall’articolo 114 della Costituzione: nello stabilire il tributo verrebbe, prima, la legge statale, poi, quella regionale anche quando il potere legislativo di imposizione sarebbe coperto dal principio di continenza, ossia dal principio secondo cui la competenza legislativa tributaria della Regione va esercitata con riferimento solo alle materie e alle funzioni ad essa attribuite. Se così fosse, accadrebbe, ad esempio, che una Regione a “vocazione turistica” non avrebbe più il ricordato potere normativo – che la Corte costituzionale gli ha sempre riconosciuto – di stabilire e istituire essa stessa, senza la mediazione dello Stato, un tributo proprio in senso stretto (un tributo, cioè, non previsto dalla legge statale) riguardo a una materia–presupposto rientrante nella sfera delle sue competenze. È questo il caso, ad esempio, del tributo (locale) di soggiorno che colpisce i non residenti che fruiscono dei servizi comunali. Una volta entrate in vigore queste nuove disposizioni, anche l’istituzione di un siffatto tributo da parte di un Comune dovrebbe essere autorizzata da una legge statale?
Data la crisi economico-finanziaria, si può certo capire una ricentralizzazione nello Stato della potestà legislativa in materia finanziaria, ma la completa soppressione, a livello costituzionale, di ogni potestà primaria delle Regioni in materia fiscale sembra, in verità, in controtendenza con gli ordinamenti della maggior parte dei paesi occidentali. Sia ben chiaro, l’introduzione di maggiori vincoli agli enti regionali e locali riguardo alle entrate e alle spese in nome dell’«unità giuridica o economica della Repubblica» e della «realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale» non è, in via di principio, disdicevole. È l’estensione di questi vincoli e il loro operare congiunto con il principio di pareggio di bilancio (che è stato inserito nella Costituzione) che danno l’impressione che si stia andando oltre un semplice riassetto delle competenze legislative regionali a favore di quelle statali.
Siamo tutti d’accordo nel ritenere che la riforma costituzionale del 2001 non ha risposto alle generali aspettative e richiede, perciò, interventi del legislatore, anche costituzionale, nell’ottica di una maggiore centralizzazione e di superamento della descritta defaillance dell’assetto federalista e, più in particolare, dell’istituto regionale. Deve, però, tenersi anche conto che i principi costituzionali di democrazia e di autonomia sono tra loro inscindibilmente connessi, così come lo sono i loro corollari di sussidiarietà, di accountability e del cosiddetto “doppio dividendo”. E questi principi vogliono che i cittadini amministrati siano, in ogni caso, posti in grado di controllare, indirizzare e giudicare l’operato dei loro amministratori per quanto riguarda le decisioni di spesa e di entrata assunte nella propria sfera di autonomia. Il fatto che il potere di imposizione in senso proprio sia stato finora poco utilizzato dagli enti locali, seppur entro il ristretto spazio fissato dalla legge delega n. 42, non giustifica la sua soppressione. Le vicende politiche ed economiche sono cicliche, per cui può accadere che si pongano, a medio e lungo termine, le condizioni perché esso sia esercitato.
In questo contesto, ovviamente, lo Stato deve avere il potere di fissare con propria legge i principi fondamentali di coordinamento, i tetti di spesa e le norme di armonizzazione dei bilanci pubblici; ma non anche quello di eliminare la attuale, seppur ridotta, autonomia tributaria degli enti locali e di stabilire esso in via esclusiva, nelle materie di stretta competenza regionale e locale, specifiche e assorbenti norme di dettaglio fortemente limitative dell’autonomia finanziaria dal lato anche della spesa. Lo ribadisco: gli interventi sulle autonomie effettuati e da effettuare erano inevitabili. Sono la loro forte incidenza sull’autonomia finanziaria (in ambedue le componenti della spesa e dell’entrata) e le modalità dettagliate di tale incidenza che appaiono, invece, discutibili e disarmoniche rispetto all’ideale modello di un federalismo fiscale improntato ai principi di autonomia, solidarietà e sussidiarietà. Viene il sospetto che questo ritorno alla finanza derivata sia giustificato non tanto da un orientamento politico di fondo contrario e alternativo ai principi costituzionali di autonomia e sussidiarietà, quanto dalla sfiducia nella classe dirigente degli enti territoriali, dalla incapacità di porre rimedio, con gli strumenti della legislazione ordinaria e dell’agire amministrativo, sia alla loro inefficienza, sia alla corruzione che si annida anche in essi. Non vorrei che – come spesso è accaduto nel nostro Paese – dietro a questa rinuncia ad un coerente disegno autonomista si nasconda una, forse più comoda, fuga in avanti.