Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 27 Lunedì calendario

In morte di Bill Cunningham

Matteo Persivale per il Corriere della Sera
Anna Wintour gli ha fatto il complimento più bello, «ci vestiamo tutte per Bill», ma sarebbe sbagliato ridurre la carriera di Bill Cunningham, morto l’altro giorno a New York all’età di 87 anni per un ictus, a quella di fotografo di personaggi famosi. Cunningham fece per mezzo secolo nelle strade di New York esattamente quello che faceva alle sfilate, o alle feste del falò delle vanità di Manhattan: fotografare la società, attraverso i vestiti. Non solo quella dei ricchi: la vita di tutti. Per Cunningham, bostoniano trapiantato a New York dopo un’infelicissima esperienza a Harvard la prima carriera fu sì nella moda, ma come cappellaio per signore dell’Upper East Side. Capì all’alba degli anni 60 che presto nessuna avrebbe più portato cappelli e che con la fotografia avrebbe potuto raccontare una storia più bella: il mondo come passerella. Solo i bambini, quando giocano, hanno sulle labbra lo stesso sorriso che aveva Cunningham al lavoro: facendo gimkane in bici tra i camion di Midtown seguiva la preda, vestito sempre in giacca blu da netturbino di Parigi, pantaloni khaki, scarpe nere con la suola di gomma. Fece vita monacale dormendo per sessant’anni su una specie di barella in uno sgabuzzino che ospitava l’archivio dei suoi negativi, con il bagno sul corridoio. Rifiutò per decenni l’assunzione al New York Times, del quale era collaboratore fisso, avere un padrone gli faceva orrore: si rassegnò a cedere alle avances del giornale nel 1994, quando non riuscì a schivare l’ennesimo furgone e finì all’ospedale senza assicurazione. Gli ultimi anni furono quelli dei premi come il titolo di Chevalier dans l’ordre des Arts et des Lettres, ritirato a Parigi. Gli dedicarono un bel documentario e lui non andò in sala, la sera della prima, perché doveva fotografare gli invitati sul tappeto rosso. E poi la mostra al Metropolitan alla quale rispose «no grazie» e le campagne ricchissime che avrebbe potuto scattare per gli stilisti che non prese mai in considerazione, «i soldi sono facili ma la libertà non ha prezzo». Venne considerato il padre nobile dei fotografi di street style che affollano Internet ma lui scattò fino a qualche anno fa solo su pellicola e paragonarlo, come artista, a quei blogger è come paragonare Basquiat a un graffitaro che spruzza un «tag» su una saracinesca.

***

Paolo Giordano per il Giornale
Ora se ne parla e si vede il suo volto sulle foto. Bill Cunninghan lo aveva messo nel conto dopo aver vissuto 87 anni cercando di evitarlo. E’ morto l’altro giorno dopo esser stato azzoppato da un ictus e aver raccontato la moda che attraversava New York e quindi il mondo. È stato, questo signore dai modi garbati, estremamente gentile ma pure estremamente schivo, uno dei primi a capire ciò che adesso è ben noto a tutti: l’importanza dello street style. L’importanza di ciò che nasce per strada o per la strada e che poi diventa nervatura fondamentale, autentico architrave della grande moda super fashion sulle passerelle di Milano o Parigi. Aveva due rubriche sul New York Times, sul quale Cunningham è stato presenza fissa per quasi quarant’anni, sempre discreto, sempre focalizzato sulle immagini che sarebbero poi passate sulle scrivanie o sui display dei fashion designer di tutto il mondo. Girava spesso in bici, almeno finché ha potuto, e indossava solitamente giacche azzurro o turchese come si può capire anche guardando il docufilm Bill Cunningham New York diretto da Richard Press e prodotto da Philip Gefter nel 2010. Era nato a Boston, una delle città con la vita di strada più vive già a quei tempi, e si trasferì a New York a 19 anni lavorando prima per Women’s Wear Daily e poi per il Chicago Tribune. Era il 1953 e da allora il mondo è ovviamente tutto diverso. Ma in questi sessant’anni il cambiamento è stato seguito da osservatori attenti come lui e non è un caso se la «street photography» è diventata, tra l’altro, uno degli hobby più diffusi al mondo. E, come si legge nel bellissimo articolo del New York Times, Cunningham ha raccontato ciò che vedeva in giro trasformando la fotografia di moda in una sorta di raffinata antropologia culturale che va ben oltre la semplice, effimera contabilità modaiola