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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

Indipendence Day di nuovo, vent’anni dopo. Intervista al regista Roland Emmerich

Una coincidenza da brividi. Perché Independence Day 2 – Resurgence è arrivato in sala, negli Stati Uniti, proprio il giorno della Brexit: quasi che il crollo delle borse europee e il destino d’Europa risuonassero insieme all’invasione aliena raccontata dal kolossal di Roland Emmerich. L’ignoto, la paura e la necessità, per salvarsi, di fare squadra.
Ma torniamo indietro nel tempo. Vent’anni fa, quando nell’estate del 1996 Independence Day venne sbandierato come il film che reinventava il genere “invasione aliena” nell’era commerciale: un action-movie con steroidi, un mix di kitsch ed effetti speciali che divertì un po’ tutti. E il regista Roland Emmerich, apertamente gay, venne soprannominato il “master of disaster”, il maestro del genere catastrofico, e avrebbe poi confermato la reputazione con altre distruzioni: Godzilla, The Day After Tomorrow, 2012. Nel nuovo capitolo, Resurgence, mentre gli uomini hanno colonizzato la Luna, gli stessi alieni del film precedente tornano all’attacco inviando un colossale disco volante che sovrasta il nostro pianeta. Protagonisti sono due giovani piloti (il leader dei quali – recitato da Jessie Usher – è il figlio del personaggio di Will Smith, che non torna nel sequel), e un orfano della prima invasione aliena, recitato da Liam Hemsworth. Del film ne abbiamo parlato a Los Angeles con Roland Emmerich, 60 anni.
Emmerich, la principale differenza tra il primo e il secondo “Independence Day”?
«Con l’originale abbiamo imparato che il pubblico di massa non si innamora degli effetti visivi, ma dei personaggi. Quindi per noi era importante riportare in scena qualcuno di loro. Ognuno di essi rappresenta un archetipo umano. Mi sono detto: voglio rispettare questa lezione. Azione sì, ma personaggi e umanità prima di tutto. In questo senso non c’è molta differenza tra il primo “Ind. Day” e il secondo».
Molti attori le sono rimasti fedeli.
«Sì, come Jeff Goldblum e Bill Pullman, reduci della “guerra del 1996”, come la chiamiamo nel film, ovviamentre invecchiati pure loro, ma pure più saggi, come si sperano lo diventino tutti con l’età».
Dal punto degli effetti visivi, cosa è cambiato?
«Nel 1996 la tecnologia digitale non era come adesso, era agli albori e io non ne sapevo molto. Oggi si può fare di tutto, basta che lo immagini. Ma ho cercato di fare il più possibile con azione meccanica, “on camera”».
Perché le piace così tanto il concetto di invasione?
«L’invasione aliena è un canone della letteratura fantascientifica da H.G. Wells a Isaac Asimov e via di lì. Ma c’è anche l’idea dell’invasione estesa e plateale della nostra privacy che si esprime in questa gigantomachia di specie. Micro e macro che si fondono».
Teme per la sua privacy?
«Non sono paranoico, ma credo che ci sentiamo tutti un po’ invasi, magari non sotto assedio ma sotto controllo. E comunque l’invasione era stato il segreto del successo del primo film, dunque perché non tornarci sopra?» Crede che le nazioni nel mondo debbano unrisi contro un nemico comune?
«Sì nella misura in cui si riesca a riconoscerlo: quel nemico spesso sfugge, si nasconde. Il nemico comune per me è l’ignoranza quando incontra l’intolleranza. Il risultato è il fanatismo. Qualcosa di peggio degli alieni di Independence Day o La guerra dei mondi».
Questo è il messaggio del film?
«No, non credo nei messaggi. Ci pensano le Poste per quello. È un film estivo, pop-corn d’evasione, non ho mai pretese altisonanti».
Nel film il presidente degli Stati Uniti è una donna. Un presagio per le prossime elezioni?
«Beh, tutti sanno che ho organizzato un evento di raccolta fondi per la Clinton a casa mia, qui a Los Angeles. Sono pubblicamente un suo ammiratore e sostenitore. Credo sia l’ora che l’America abbia una presidente donna, e soprattutto che Hilary con le sue idee progressiste, democratiche, liberali, sconfigga lo spauracchio Donald Trump. Che regressione e che disastro se ciò non dovesse avvenire! Tematica degna per un altro film d’azione con echi di fantapolitica, se non proprio fantascienza. E poi diciamocelo, la capigliatura di Trump è atroce! [scoppia a ridere]».
Lei ha sempre detto di considerarsi un regista per l’uomo comune. È così?
«Certo. Io faccio film per le masse. Del resto la massa è potere! Vede, io ho studiato cinema in Germania e mi sono laureato nel 1977, quando autori come Werner Fassbinder e Wim Wenders erano eroi per noi studenti e giovani cinefili. Ma era anche il tempo di Guerre Stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Certo, Alice nelle città e Aguirre furore di Dio, ma anche Spielberg e Lucas. Io provengo da questa fusione di estetiche, e me ne vanto».