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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

Piatti grassi, camerieri nudi, tovaglie schizzate, dita unte, piccioni smembrati da vivi. Una cena al Diverxo, dove l’avanguardia rasenta la perfezione

«Avanguardia o morte», è la parola d’ordine da pronunciare per entrare in questo regno dell’eccesso. Sei mesi dopo la mia prenotazione, varco la soglia di DiverXO, uno dei ristoranti tre stelle Michelin più esclusivi del mondo.

Qui, dove i reali di Spagna sono stati invitati a mettersi in lista d’attesa, mi accoglie un nugolo di farfalle nere che, a migliaia, si rincorrono sui muri, lungo le scale, nei bagni, roteando attorno a enormi porci con le ali che pendono dal soffitto, in atmosfere che rimandano ora ad Arancia Meccanica di Kubrick, ora alla Città incantata di Miyazaki.

Il percorso inizia dalla visita al sordido stanzino del lavapiatti, ingolfato di stoviglie, e alla cucina disordinata, stipata all’inverosimile di pentole, cuochi, e fumo denso. Capisco allora che nulla sarà uguale a ciò che conosco e mi abbandono a prendere il mio posto sul palcoscenico di questa cena di Trimalcione, sillabando la scelta del menu: «ba-ca-nal», orgia.
I primi piatti
La sala del ristorante non esiste, sostituita da una serie di rotondi camerini, delimitati da tende di velluto rosso, dove mi rinchiudono nell’oscurità, alla luce fioca di un candelabro. Una cameriera dal frac nero, e dalle labbra dipinte del medesimo rosso acceso delle scarpe da ginnastica, squarcia il sipario; con rudezza mi infila in gola un sorso di alcol ghiacciato e mi mette sotto al naso una Guacamole di pomodorino, finocchio e avocado, con polpo di scoglio cotto a vapore e midollo di vitello. La sensualità di questo piatto grasso, sorprendente, lussurioso, è avvolgente, scalda la lingua e rinfresca le gengive, in un’esplosione di minuscole sfere di agrume che scoppiano sotto ai denti. Quando un altro cameriere mi infila in bocca il Sandwich croccante di coda di toro, rinvengo, ritrovando alcune sonorità gustative del ragù napoletano, e il Taco di huitlacoche (fungo parassita del mais), fiore di zucca e sherry Palo Cortado, una delle cose più buone che abbia assaggiato nella mia vita, mi getta definitivamente nelle braccia del più totale «desenfreno».
Il delirio onirico
All’improvviso si accendono le luci, quattro mani impacchettano le tende e svelano gli altri commensali. Le coppie sorprese in intimità si ricompongono di fretta, la musica sale a volume altissimo, stordente, e appaiono camerieri che saltano nudi sui tavoli, spingendo il cibo a forza nella bocca dei clienti, attraverso un imbuto d’oro. I cuochi spruzzano i condimenti sulle tovaglie, con pennelli intinti in salse dense e colorate e le incendiano con taniche di alcool puro e cannelli da cucina. Non ci sono posate ma solamente un gioco di dita imbrattate che passano il cibo da una bocca all’altra. Una coscia di piccione viene staccata da un animale vivo e cotta su braci ardenti, direttamente nel piatto. È uno scambio continuo di sedie tra vecchi, giovani, uomini, donne, grassi, magri, in una girandola di baci sottolineata dal lancio di uova crude. Un proiettore ripete sul soffitto il filmato di una telecamera che, dai bagni, rimanda le immagini di chi vomita nel lavello…
La (magica) realtà
Poi arriva il Gazpacho agropiccante di fragole selvatiche e peperoncino chipotle affumicato, gambero rosso alla vaniglia e crocchetta liquida e l’odore disgustoso di olio bruciato e il carapace carbonizzato della testa del crostaceo ridimensionano il sogno geniale dello chef David Muñoz. La realtà però non è così lontana dalla fantasia – che si può alimentare con la visione del cortometraggio presente sul sito del ristorante www.diverxo.com – ma il baccanale non ha la forza e il coraggio di andare fino in fondo. I 16 «lenzuoli», che corrispondono ad altrettante portate, composte ognuna da almeno tra preparazioni, completate dai camerieri nel piatto, sono un crescendo di sapidità. Ma ci sono praticamente solo grassi e proteine, eccezion fatta per una punta di asparago, e la tensione scende con l’andare avanti delle lunghe ore dedicate alla degustazione. Quando sta per spuntare la noia, arriva un’altra portata sorprendente: il Milano o Bombay, ossobuco di manzo kobe con pomodorini alla brace, cardamomo e basilico insieme con un raviolo liquido di zafferano con yogurt tandoori e purea di rapa con burro di bufala e tartufo: è un piatto esoterico per azzardo, sapore ed esecuzione, ma di un’opulenza prossima al limite. I camerieri sono molti, ma disinformati, stazzonati, svogliati o solamente stanchi e la magia dell’eccesso si smorza quando sta per decollare.
Qualche ditata di troppo accompagna i piatti e alcune inceppature nel servizio rischiano di sporcare di grottesco la cerimonia della cottura al tavolo. Non tutti possono puntare alla perfezione con la maniacale precisione di Ferran Adrià, che ebbe la fortuna di lavorare con Giulio Soler – il più grande direttore di sala dello scorso secolo – e l’umiltà di confrontarsi con spirito collaborativo con appassionati e critici gastronomici, ma la sensazione è di piacere intenso, di stimolo sinestetico, di rito propiziatorio. L’enorme maiale in plastilina che si arrampica sul tavolo di servizio, alcuni ospiti senza freni, che paiono comparse della Grande Bellezza, e lo sguardo felliniano, tra il compiaciuto e il compassionevole, dei portatori di piatti che osservano gli effetti di quella profusione di alcool e cibo, sono i quadri che lo chef ha voluto mettere in scena.
Sipario!
Quando arrivano i Dolcetti bianchi di yogurt acido con sesamo nero e croissant, capolavori, questi ultimi, non più grandi di un’unghia, la gola trova un po’ di refrigerio e la mente si ricompone, per prepararsi a ritornare al mondo reale. Sulla strada la luce è quella del tramonto. Ma non è stato un lungo sogno. Sono certo di aver mangiato in uno dei più grandi ristoranti della vecchia Europa e di voler ritornare per recitarvi ancora.