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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

Sulla terza corsia del canale di Panama

Giuseppe Quarta si svegliava ogni mattina alle 4.30 per arrivare in cantiere prima che il traffico bloccasse il ponte de las Americas, ma soprattutto per ascoltare nel silenzio dell’alba, sul bordo del canale di Panama, il canto degli uccelli in volo sulle nuove chiuse di Cocoli, una sfida ingegneristica senza precedenti che promette di cambiare la rotta delle supernavi del terzo millennio. Il project manager italiano che per quasi due anni si è concesso poche ore di sonno – «anche perché con un’opera così sulle spalle si va a letto preoccupati e ci si sveglia anche peggio» – ora può finalmente riposare. Il lavoro è concluso.
Ieri, qui, il silenzio ha lasciato il posto alla celebrazione. Il presidente di Panama, Juan Carlos Varela, aveva invitato una settantina di capi di Stato, dal re di Spagna a Barack Obama, per l’inaugurazione del nuovo canale, o meglio di quella terza corsia tra Pacifico e Atlantico che ora permette il transito anche alle navi NeoPanamax, i nuovi giganti del mare finora costretti a circumnavigare il Sudamerica o ad allungare fino a Suez. Alla fine – colpa della Brexit o degli strascichi dei Panama Papers – si sono presentati solo dodici leader, perlopiù regionali, affiancati dalla moglie del vicepresidente Usa, Jill Biden, e dai delegati di altre 60 nazioni.
La vera festa era nei sorrisi dei panamensi che sventolavano bandiere, proclamando l’orgoglio di una piccola nazione che viaggia con tassi di crescita annui del 6% e vuol far dimenticare in fretta scandali antichi e recenti. «Il canale è la rotta che unisce il mondo – ha detto Varela – e questo è un giorno molto importante per il nostro Paese. Il canale è del popolo, a lui ora devono arrivare i profitti». Le autorità fanno spallucce alla crisi del commercio marittimo: «Abbiamo già 166 prenotazioni per la nuova corsia», assicurano, e a pieno regime da qui passeranno 15 navi al giorno.
La prima è stata la Cosco Shipping Panama – cinese, ovviamente – un gigante di ferro lungo 300 metri, capace di trasportare un carico tre volte superiore a quello dei mercantili che transitano da oltre un secolo per il «vecchio» canale. Alle prime luci dell’alba, il capitano panamense Peter Pusztai ne ha preso la guida all’imbocco sull’Atlantico e l’ha condotta oltre la prima chiusa di Agua Clara. Pusztai è un veterano del canale, eppure ieri era nervoso: «I fisici e gli ingegneri fanno i loro calcoli, ma poi tocca a noi fare i conti con la realtà», ci ha detto con un sorriso tirato.
Il sangue freddo del pilota è indispensabile. Ogni manovra ha in sé un possibile rischio. Le variabili sono tante: il vento, le correnti, il movimento dell’acqua da una vasca all’altra. Quando si governano dei bestioni come questi i margini di errore sono ridotti ai minimi termini: le Neo-Panamax sfiorano in larghezza i muri del canale, guidate da un rimorchiatore che a malapena trova spazio in lunghezza tra la nave e la chiusa. Ieri è andato tutto come previsto. Il nuovo sistema, composto da tre camere d’acqua, ha sollevato di 27 metri, come un gigantesco ascensore, il mercantile, dal livello dell’oceano fino a quello del grande lago Gatún. Dopo otto ore la nave è spuntata sull’altro lato e ha cominciato la discesa verso il Pacifico attraverso le chiuse gemelle di Cocoli. Sospira Giuseppe Quarta, project manager di Salini-Impregilo e amministratore delegato del Consorzio italo-spagnolo-belga che sette anni fa vinse a sorpresa l’appalto (3,1 miliardi di dollari), soffiandolo agli americani di Bechtel. Poi snocciola le cifre: «Abbiamo scavato 70 milioni di metri cubi di roccia, gettato 55 milioni di metri cubi di calcestruzzo, installato 270 mila tonnellate di ferro».
È stata un’impresa titanica costruire i due sistemi di chiuse e gli adiacenti bacini per il riciclo dell’acqua, trasportare dall’Italia le sedici gigantesche paratoie – sliding doors da 4.000 tonnellate l’una, che chiudono in soli 4,25 secondi – risolvere decine di problemi tecnici, come la mescola di calcestruzzo da cui filtrava acqua. E resistere alle Cassandre, perlopiù statunitensi, che preannunciavano disastri. Resta aperto un contenzioso di 3,4 miliardi di dollari per extra costi con l’Autorità del canale. Ma la consegna è fatta. «Abbiamo costruito la nuova via del commercio mondiale», ha commentato ieri Pietro Salini.
Una vittoria per il know-how italiano ma soprattutto per Panama che dal 31 dicembre 1999 ha preso in mano le redini del canale costruito un secolo fa dagli Usa nel proprio «cortile di casa». «Da più di 500 anni siamo una regione di transito – commenta Gilberto Perez, docente di amministrazione marittima – ma oggi il canale è gestito meglio di quando c’erano gli americani». Ogni anno genera profitti per 2,5 miliardi di dollari e la terza corsia potrebbe far raddoppiare gli incassi. La sfida è conquistare i mega-cargo che imbarcano fino a 14.000 container e i «tanker» che trasportano gas liquefatto fra la costa Est degli Usa e l’Oriente.
Le autorità di Panama trasudano ottimismo. Varela ha lanciato un piano di investimenti a tutto campo: ampliamento dei porti, nuovi terminal per il gas e infrastrutture, ma anche progetti abitativi, educativi, sanitari e il restauro della città di Colon, un gioiello architettonico all’imboccatura atlantica.
Panama produce poco o nulla. Il 68% del suo Pil arriva dal cosiddetto terzo settore, servizi e commercio. E ora vuole rifarsi il look, vincere la reputazione di Paese corrotto (l’ex presidente Martinelli è fuggito in Florida per evitare il carcere), oltre che di paradiso fiscale e patria della famigerata Mossack Fonseca. La difesa è vibrante: «Qui le tasse si pagano e abbiamo firmato accordi con molti Paesi per lo scambio automatico di informazioni bancarie (non l’Italia, per ora) – dice al Corriere Gian Castillero, consulente governativo e supervisore delle Banche di Panama —. La Mossack Fonseca è solo una delle tante società che operano nel Paese e l’80% delle attività citate nei Panama Papers non erano neppure basate qui».
Il make-up riparte proprio dal canale. Che per il governo non ha rivali: «Noi guardiamo già al futuro – assicura il viceministro dell’Economia Ivan Zarak – a una possibile quarta corsia».