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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

Sui tassi quasi a zero e sulla (in)stabilità finanziaria ed economica

Da decenni i banchieri centrali hanno avuto sempre una risposta pronta ogni volta che l’economia rallentava: tagliare i tassi d’interesse. Anche per questo negli ultimi tempi hanno segretamente sperato che una ripresa robusta permettesse loro di rialzarli, se non altro per disporre di margine di manovra alla prossima recessione. Tassi più alti li avrebbero tolti dall’imbarazzo della scelta, ma dal 2011 le condizioni non li hanno mai permessi. Per questo sopra i palazzi della Bank of England, della Federal Reserve a Washington, della Banca centrale europea e della Banca del Giappone fino a giovedì aleggiava un interrogativo: cos’altro avrebbero potuto fare i signori del denaro se un’altra crisi si fosse scatenata quando i tassi sono ancora a zero.
Tra poco lo si potrebbe scoprire. Senz’altro ne hanno parlato i leader delle grandi banche centrali del pianeta questo weekend a Basilea alla riunione annuale della Banca dei regolamenti internazionali. E di nuovo torneranno a discuterne nelle pause del Forum annuale della Bce che parte domani a Sintra: oltre a Mario Draghi, padrone di casa, parteciperà fra gli altri la presidente della Federal Reserve Janet Yellen; sembra invece probabile che debba rinunciare all’ultimo Mark Carney, il governatore della Bank of England, bloccato a Londra dalla tempesta sulla sterlina seguita al referendum sulla Brexit.
Qualunque siano le eventuali risposte delle banche centrali, chi le guida non avrà potuto fare a meno di notare una novità: è la prima volta dall’inizio della crisi finanziaria nel 2007 che il mondo intero non guarda a loro per mettere il prossimo tampone. Per una volta il potere di stampare moneta o intervenire sui mercati appare in seconda fila – per adesso – di fronte a un evento sismico di prima grandezza sull’economia. Più che i vincoli di una politica monetaria già a tassi zero o quasi zero, questa situazione inedita riflette due fattori diversi. Il primo è l’origine profondamente politica e istituzionale della crisi che si è aperta negli ultimi giorni: i mercati si sono limitati a reagire con vendite a pioggia sui titoli azionari, i meno protetti dall’ombrello delle banche centrali.
Il secondo fattore è forse anche più impalpabile. I leader dei grandi istituti di emissione, dalla Fed, alla Bce, alla Bank of Japan, sono fra gli attori più propensi a cooperare che si trovino sulla scena internazionale. Ma molti di loro per adesso danno la priorità a dilemmi domestici: Janet Yellen negli Stati Uniti deve ricalibrare (e rinviare) l’intera sequenza di rialzo dei tassi appena avviata in dicembre; Haruhiku Kuroda in Giappone sta facendo i conti con il fallimento della strategia sua e del governo nel guidare lo yen al ribasso per motivi commerciali; e Draghi fatica sempre di più a contenere la frustrazione per l’incapacità dei governi dell’euro di completare l’architettura istituzionale della moneta: oggi somiglia a un’impalcatura incompleta che la prima tempesta metterà a dura prova.
Nessuna di queste preoccupazioni impedisce però che le grandi banche centrali prima o poi si coalizzino per calmare i mercati, se i prossimi giorni saranno simili a venerdì scorso. In parte devono averlo già fatto in ordine sparso. Fin dall’apertura di venerdì la Bce è entrata in forze sul mercato acquistando titoli di Stato italiani, spagnoli e (poco dopo) portoghesi. Anche la Bank of England ha fatto sentire le proprie mani sul mercato: giovedì la sterlina è precipitata dell’11,3% sul dollaro in sette ore, un crollo senza precedenti, prima di rimbalzare misteriosamente del 4,7%.
Nuove dislocazioni sui tassi di cambio potrebbero indurre anche risposte più coordinate, specie se il referendum britannico facesse saltare gli equilibri che prevalgono dal vertice del G20 di Shanghai di metà aprile. Allora sembra emersa un’intesa far sì che il dollaro non proseguisse nella continua rivalutazione dell’ultimo anno e mezzo: quella pressione al rialzo aveva acuito le difficoltà della Cina, la cui valuta è agganciata in modo elastico al biglietto verde, e aveva aggravato i crolli di Borsa di inizio anno. Dalla notte di giovedì invece il dollaro si è bruscamente rivalutato sull’euro fino ai massimi da inizio marzo scorso.
La pressione è ancora più alta sul Giappone. L’euro si è di colpo svalutato del 5,9% sulla moneta di Tokyo, uno slittamento colossale fra due valute di riserva dati i volumi di migliaia di miliardi sul mercato dei cambi; la sterlina addirittura di più dell’11%, e anche il dollaro ha perso terreno sulla moneta giapponese. Ma il comunicato dei ministri finanziari e dei governatori del G7 di venerdì scorso è stato molto chiaro: «L’eccessiva volatilità e i movimenti disordinati nei tassi di cambio possono avere conseguenze avverse per la stabilità finanziaria ed economica», si legge.
L’asticella per interventi delle grandi banche centrali sul mercato, singoli o coordinati, dunque forse è più bassa di prima. Non ci si poteva aspettare altro in un’era di tassi zero, e mare in tempesta.