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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Come De Chirico trovò l’America

Sulle due sponde dell’Atlantico, gli archivi raccontano una storia singolare e mai del tutto chiarita, sicuro prodromo della fama che negli Stati Uniti avrebbe poi avuto Giorgio de Chirico (1888-1978): la sua amicizia, dopo finita in modo misterioso, con il più grande, eccentrico, e forse odiato collezionista americano, Albert Coombs Barnes (1872-1951), che nella prima metà del Novecento assembla ottomila quadri; anche 181 Renoir, 69 Cézanne 60 Matisse tra cui l’immenso murale della Danse, 44 Picasso, 14 Modigliani. La raccolta per decenni era a Merion, un sobborgo chic di Filadelfia, quasi impossibile da visitare; da pochi anni si è trasferita in città, perché senza le sue sovvenzioni la Fondazione sarebbe perita: si vede e offre delle sorprese.
IL RITRATTO
Barnes è il primo americano a comperare l’artista italiano: nel 1923 a Parigi, acquista da Paul Guillaume, mercante di impressionisti e conoscente di de Chirico (ne pronuncia una Allocuzione per una mostra del 1918), una tela del 1912 o 1913: La meditazione del pomeriggio, oppure L’arrivo; pagata cinquemila dollari. Nella capitale francese, i due s’incontrano: de Chirico, nel 1926, gli fa un ritratto che lo mostra un po’ ombroso e corrucciato, come realmente era. Guillaume lo dona alla Fondazione di Merion. Il dipinto è stato sempre proibito alla vista: era nelle stanze private del collezionista; solo un paio d’anni fa, nella nuova sede della raccolta, a Filadelfia sul Museum mile, è stato (finalmente) collocato all’ingresso. Ma da lì nasce uno stretto rapporto. Barnes scrive un saggio sul pittore per una mostra a Parigi, 1919; lo sostiene moralmente, perfino finanziariamente, nel primo viaggio oltre Oceano che egli compie: un anno e mezzo dal 1936. Negli Anni 30, arriverà a possederne venti quadri (ma nelle Memorie della mia vita, de Chirico scrive «oltre 25, dal 1914 al ’34»); poi, però, evidentemente ne rivende alcuni: e oggi, ne restano appena undici. Ma soltanto due, il primo acquisto e il ritratto, eternati nel catalogo dei capolavori della pinacoteca.
LE MISSIVE
«Mio caro amico, avrei dovuto scriverle da giorni, ma sono molto occupato dalla mia mostra e colpito dal raffreddore», scrive l’artista a Barnes, poco dopo l’arrivo a New York; non può «dire quanto sono toccato dalla vostra amicizia, benevola e intelligente», e giù una serie di complimenti. A De Chirico, la prima mostra negli Usa l’aveva già dedicata Pierre Matisse, il figlio del pittore, nel 1928. Ma quando l’artista ne organizza una proprio a Filadelfia, si scusa per non andare a trovare Barnes, che lo autorizza a usare come prefazione il suo vecchio saggio; e anzi lo corregge. Peraltro, l’aveva scritto, si vede, quando non lo conosceva ancora troppo bene; infatti, lo chiama soltanto «Chirico». L’artista spedisce da New York auguri per l’Anno nuovo (28 dicembre 1936) a lui e «madame Barnes»; ha un appartamento, dove lo invita. A gennaio, il collezionista gli scrive due righe: «Passerò dopodomani, per vedere i vostri quadri e, magari, comperarne qualcuno»; mille dollari per quattro opere. In aprile De Chirico gli manda i saluti e riparte.
Nel ’37, per ottenere un permesso d’immigrazione, l’artista gli chiede una dichiarazione; e lui: «Conosco de Chirico da 12 anni, e ne possiedo 16 opere, 8 comprate nel 1936 – 37». Il pittore domanda la prefazione per un’altra mostra, nel prossimo inverno, e di poter visitare la collezione con un caro e antico amico; Barnes gli risponde di usare il solito testo, magari riassunto da qualcuno, o di rivolgersi ad altri. E la visita con l’amico? Abbiamo tante domande, solo chi frequenta i nostri corsi può accedere alla Galleria. Ma De Chirico scrive ancora a dicembre ’37: spero di vederla alla mia mostra, mi avvisi. Però, cinque giorni dopo avverte: «Sono desolato di di venire a sapere che siete passato ma senza dirmelo». Poi, non c’è traccia d’altro: idillio concluso.

IMPIETOSO

Forse perché, nel 1938 sul giornale L’Ambrosiano, De Chirico scrive un ritratto impietoso del collezionista. Lo dice «mistico della pittura»; ma spiega anche che «nulla è difficile» come visitarne il museo. Lo chiama il «capitano Nemo: uomo solitario» che «punisce chi sia contro di lui»; uno con pochi amici, e infatti usciva solo una sera alla settimana, per andare ad ascoltare il suo sodale Leopold Stokowski che dirigeva la Philadelphia Orchestra. «Sa che i suoi quadri spariranno con lui: i sotterranei del museo sono minati. Per testamento, quando morrà bisognerà portarlo nella sala centrale», dove «un servo fedele premerà un manubrio, e la magnifica collezione, coi resti mortali del creatore, si disperderà nell’aria». Per fortuna, non è successo; ma in queste poche righe, c’è quanto basta per concludere un’amicizia.