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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Brexit, ecco cosa succederà in pratica da qui a due anni

Punire il Regno Unito per evitare che altri paesi siano tentati da un’uscita dall’Unione Europea: è questo il senso del piano B sulla Brexit preparato dalle istituzioni comunitarie con la minaccia esplicita di buttare fuori i consumatori e le imprese britanniche dal grande mercato interno. «Out is out», aveva avvertito il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, alla vigilia del referendum del 23 giugno. L’arma sono i negoziati per arrivare ad un accordo di divorzio e quelli per regolare le future relazioni politiche e commerciali tra l’UE e il Regno Unito. Senza un compromesso sulle modalità di uscita entro due anni, Londra sarà fuori dal club.

IL TRATTATO

Il conto alla rovescia inizierà il giorno in cui il governo britannico invierà una richiesta formale di «recesso», come previsto dall’articolo 50 del trattato. Una volta fuori dall’Ue, le imprese si troveranno fuori al mercato interno, con barriere commerciali che potrebbero costare decine di miliardi al Regno Unito. In realtà, l’articolo 50 del trattato è ambiguo. Le «modalità di recesso» vanno negoziate «tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione», recita il trattato. In questo contesto giuridico, i partner europei del Regno Unito avevano la possibilità di aprire una doppia trattativa, negoziando al contempo il divorzio e la nuova partnership con Londra. E invece hanno preferito l’approccio punitivo, rinviando le discussioni sulle relazioni future tra Ue e Regno Unito a dopo la separazione. Sui tempi «c’è ampio margine discrezionale», spiega una fonte: all’unanimità i capi di Stato e di governo avrebbero la possibilità di prolungare oltre i 2 anni la scadenza della Brexit. Ma in pochi sono pronti a concessioni. Quello tra Regno Unito e Ue è considerato l’accordo di divorzio più complicato al mondo. Non c’è alcun precedente. Ma paradossalmente trovare un compromesso sulla separazione è la cosa più facile. Si tratta di decidere sul futuro dei funzionari comunitari con passaporto britannico, il trasferimento delle agenzie Ue che hanno sede nel Regno Unito, le risorse del bilancio comunitario. Possono essere inserite norme transitorie. Il problema politico più rilevante è rappresentato dalla possibilità di Londra di continuare a votare e dalla presidenza britannica dell’Ue prevista per il secondo semestre 2017.
Per negoziare una nuova partnership, invece, servono almeno 5-7 anni. «È un rompicapo legale e politico», spiega una fonte. Il Regno Unito dovrà introdurre nella sua legislazione o sostituire circa 80 mila norme europee tra regolamenti e direttive. Londra deve decidere quale tipo di relazione richiedere: la Norvegia, che è membro dell’Efta, contribuisce al bilancio comunitario. Come dimostra il caso della Svizzera, che attraverso un altro referendum aveva deciso di mettere un tetto all’ingresso di migranti europei, tutti i paesi che vogliono partecipare alla libera circolazione di merci, servizi e capitali, devono accettare la la libera circolazione dei lavoratori. Un vuoto temporale e giuridico, con il Regno Unito fuori dal mercato interno, è la prospettiva che allarma di più gli economisti per i potenziali effetti sull’economia britannica e europea. Circa il 50% delle esportazioni va verso gli altri 27 Stati membri, mentre le importazioni ammontano ad appena l’11%. Fuori dall’Ue e dal mercato interno, alle merci britanniche verrebbero imposti i dazi standard dell’Organizzazione Mondiale del Commercio in media del 3%, ma in casi eccezionali fino al 60% – annullando il vantaggio competitivo della svalutazione. Londra dovrebbe decidere se reagire imponendo a sua volta tariffe su prodotti industriali o agricoli, aumentando i costi per le imprese e i consumatori. I servizi finanziari andrebbero a sbattere contro barriere non tariffarie: le grandi banche globali hanno pronti piani d’emergenza per trasferirsi a Francoforte o Parigi. Ma una guerra commerciale rischia di far male anche all’Ue. La Germania nel 2015 ha registrato con il Regno Unito un surplus commerciale di 54 miliardi di dollari.