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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Il nostro modo di tifare Italia è cambiato in meglio

C’è un dato che fa riflettere sull’Italia dell’Europeo, il numero di telespettatori. Diciotto milioni anche contro l’Irlanda, partita per noi quasi soltanto sperimentale. Sono il doppio di un’ottima sera di Sanremo. Eppure questo è il tempo del rancore, del disamore verso tutto quello che riguarda il nostro Paese. È rimasto però questo angolo grosso di purezza nei confronti del calcio. Anzi, direi che è cambiato in meglio il nostro modo di tifare Italia. Quando nel ’70 arrivammo secondi in Messico, battuti dal miglior Brasile della storia e ottenendo il nostro miglior risultato dal 1938, la gente reagì aspettando la Nazionale al ritorno con sacchi pieni di pomodori. Oggi non è più così. Si riconosce al calcio un’identità nazionale vasta ma molto più morbida. È diventato quasi un modo di stare insieme, di vivere il calcio più sobriamente, come fosse una cosa terza, non il dramma continuo del campionato. Un nazionalismo leggero, quasi divertito, dove tutti possono essere intenditori senza soffrire troppo. Forse non c’è amore per la patria, forse non c’è nemmeno la soddisfazione per un comune sentire. C’è però una specie di lunga simpatia che si avvicina a un vecchio sentimento senza fanatizzarlo. Come se sotto sotto ci facesse piacere far vedere agli altri che qualcosa sappiamo farla bene. Se tutto un Paese resta fedelmente a guardarsi con tanto slancio c’è qualcosa che non abbiamo capito di quel Paese. Non è più la malia del calcio, la sua cattiveria, il bisogno di protagonismo, il rito antico delle notti magiche. È tutto molto più lieve, viene tutto dimenticato presto, per questo la volta dopo si ripete puntuale. È forse un richiamo moderno, il divertimento puro del calcio e il bisogno di una casa comune diversa. Forse è egoismo anche questo, forse significa che amiamo così poco l’Italia da sopportarne facilmente i rovesci eventuali. Non è la Juve, non è la nostra squadra. È un’entità che sentiamo astratta. Però c’è anche il vago sospetto che ci sia di più, come un sotterraneo bisogno di continuità, di riconoscersi per una notte. Una specie di selfie nazionale, dove ci siamo tutti, cioè io, più io, più io. E finalmente loro, i nostri.