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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Breve storia dell’Inghilterra

Nella prima scena del secondo atto del «Riccardo II», Shakespeare mette in bocca a Giovanni di Gand, zio del re, una famosa descrizione dell’Inghilterra. Giovanni la definisce «isola incoronata, terra di maestà, sede di Marte, un altro Eden, un semi paradiso, una fortezza costruita dalla Natura contro le infezioni della guerra, una felice culla di uomini, un piccolo mondo, una pietra preziosa incastonata in un argenteo mare che le serve da muraglia contro l’invidia di terre meno felici, una zolla benedetta». Questa è la citazione a cui gli inglesi più frequentemente ricorrono quando vogliono parlare della propria insularità, di ciò che distingue la loro terra da altre terre e altri popoli.
In realtà l’Inghilterra fu sempre molto meno insulare di quanto desideri apparire. Era lontana, ma non estranea, quando il papa Gregorio, con un gioco di parole, chiamò «angeli» i biondi angli che erano arrivati, alla fine di un lungo pellegrinaggio, nella capitale della cristianità. Era troppo vicina alle coste francesi perché i normanni rinunciassero alle sue terre meridionali. Dall’arrivo di Guglielmo il conquistatore, nel 1066, l’aristocrazia dell’isola parlò una lingua bastarda in cui le parole usate dalla corte erano francesi e quelle usate dal popolo erano sassoni. Durante una guerra durata più di cento anni, dal 1338 al 1453, non fu facile distinguere il regno d’Inghilterra da quello di Francia. A chi appartenevano Calais, il Périgord, l’Aquitania? Contro chi combatteva Giovanna d’Arco? Contro il re d’Inghilterra o contro il Duca di Borgogna?
Non fu insulare neppure la famiglia regnante inglese. Negli scorsi giorni sono apparsi articoli, soprattutto sulla stampa britannica, che propongono una sorta di parallelismo fra lo scisma del 1534, quando Enrico VIII creò la Chiesa d’Inghilterra, e l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma il re aveva sposato una principessa spagnola, Caterina d’Aragona, e avrebbe probabilmente sposato un’altra principessa europea se il papa Clemente VII gli avesse concesso il sospirato divorzio. Da allora l’Inghilterra ebbe una regina per metà spagnola, Maria la Sanguinaria, e una regina zitella, Elisabetta. Quando gli Stuart, dopo la morte di Elisabetta, sedettero sul trono inglese, Giacomo sposò Henriette Marie, sorella di Luigi XIII. Più tardi, dopo una parentesi parzialmente olandese, la dinastia inglese divenne tedesca e toccò il suo punto più alto quando Vittoria, figlia di un Hannover, sposò Alberto di Sassonia Coburgo. Ed era ancora in buona parte tedesca quando il patriottismo e la prudenza persuasero Giorgio V, all’inizio della Grande guerra, che era preferibile adottare il cognome inglese di Windsor.
Nel frattempo l’Inghilterra aveva partecipato a quasi tutti i conflitti del continente. Attratta ormai dall’Atlantico e dall’Oceano Indiano non combatteva per possedere nuove terre. Voleva soprattutto evitare che un grande Paese, a sud della Manica e del Mare del Nord divenisse la potenza dominante del continente. Per sé, dopo la fine di un conflitto o di un negoziato da cui era uscita vittoriosa, si accontentò di qualche isola o qualche scoglio da cui sorvegliare i cugini europei: Gibilterra dopo la guerra di successione spagnola, Malta dopo le guerre napoleoniche, Cipro durante il lungo declino dell’Impero ottomano. Sostenne i movimenti nazionali, fra cui quello italiano perché una nazione di media grandezza, in quegli anni, le sembrava meno minacciosa di un impero multinazionale. Vide con simpatia la nascita di una grande Prussia perché la Germania le sembrava allora meno pericolosa della Francia. Fece previsioni sbagliate e commise errori, ma sempre con uno stesso obiettivo; evitare un nuovo Luigi XIV e un nuovo Napoleone. Fu questa la ragione, per cui, dopo avere inutilmente ricercato la pace, combatté contro Hitler.
Non fu mai veramente insulare, quindi. Ma l’impero divenuto Commonwealth, la fierezza con cui aveva combattuto durante la Seconda guerra mondiale e il rapporto speciale che aveva stretto con gli Stati Uniti le dettero la sensazione di potere aspirare a un futuro diverso da quello dei suoi cugini a sud della Manica. Quando sei Paesi crearono il Mercato Unico, cercò di raggruppare intorno a sé, in una grande zona di libero scambio, gli altri Paesi dell’Europa occidentale. Quando l’Efta (European Free Trade Association) non dette i risultati sperati, chiese di entrare nella Comunità economica europea, ma senza condividerne lo spirito e gli obiettivi.
Il referendum del 23 giugno ha tolto di mezzo uno sgradevole equivoco. Il giorno dell’indipendenza britannica, come lo ha definito Nigel Farage, leader dell’United Kingdom Independence Party, potrebbe essere il giorno in cui l’Unione Europea è libera di proporsi obiettivi più ambiziosi di quelli graditi a Londra. Mentre il Paese che non è mai stato veramente insulare rischia di essere tale in un mondo in cui soltanto gli Stati continentali o le grandi confederazioni possono affrontare le sfide della globalizzazione.