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 2016  giugno 25 Sabato calendario

Una bella retrospettiva su Mimmo Jodice a Napoli

Con emozione, le pareti altrimenti fredde, lineari, del Madre, si aprono, malleabili ad accogliere, come in un utero ospitale l’intera, palpitante opera d’un grande della fotografia quale Mimmo Jodice. Più che non immagini ferme, icone indiscusse della luce e del buio, risultati estetici intoccabili ed infiorati di cornici, ritrovi processi visivi, che si fanno lampi fulminei di visioni ctonie, sondaggi archeologici della realtà, interrogativi brucianti. Che si materializzano in un attimo di urticata folgorazione. 
La chiave d’espressione più ricorrente, in questo ulissiaco viaggio moderno, in un tempo che non ha più scansioni, ma scatti sincopati e singhiozzi visivi, intervalli lirici ma non estetizzanti, è quello della «vacanza», dell’assenza vistosa, del buco cavernoso, denti guasti della civiltà e fascinazione del buio. Come mostrano tanti scatti celeberrimi: La Tomba del Soldato Romano a Petra oppure le ritmate finestre cave di nero petrolio magnetico, del Suor Orsola di Napoli – oasi di riflessione filosofico-greco. Ma non si tratta mai d’una rovina compiaciuta, in senso romantico, decadente. È sempre qualcosa di forte, di terremotante, come quando il grigio topo della Storia intacca i nasi delle sculture e le sfigura, rendendole ancora più vive, parlanti. Drammaticamente in dialogo con la nostra pietas allarmata. Perché il vuoto di Jodice, che si riempie, per contrappasso, d’una terribile forza magnetica, tellurica, aspirante, un’energia vulcanica e primitiva, che tarla la pietra e sfigura le sagome è un vuoto che ci parla e richiama, anzi esige, l’orma dell’umano, la traccia agonizzante del respiro vivente. La pompa di benzina «neorealista», ch’egli isola, sola, come una scultura decrepita (che attende però la mano ruvida del viandante meccanico) è lontana dalle algide gasolines di Ed Rucha, come una pièce del silenzio di Cage lo può essere da una farsa di Scarpetta. Ma Jodice, legato al mondo d’avanguardia di Amelio, Lia Rumma, dello Studio Trisorio, miscela quelle due anime, miracolosamente: come il limone caprese di Beuys, con l’energetica lampadina, ficcata nel giallo costato. 
Si guardi per esempio quell’immagine programmatica, che dà il titolo all’ultima parte della sezione retrospettiva, al terzo piano, ma anche all’intera mostra: l’Attesa. La si confronti con una non meno celebre e programmatica di Ghirri, con lo scheletro nudo d’una porta calcistica, che inquadra desolantemente il mare. Lì l’uomo non c’è, c’è il brullo sguardo metafisico del mondo. Jodice ci propone invece come la vile poltrona disertata, in modesto moplen turistico, d’uno spettacolo quotidiano, che deve sempre ancora iniziare e sta, scranno in umanissima plastica ansiosa, come un animale in agguato, di fronte ad uno schermo vuoto, ma promettente, vitale, che pare un cielo d’aurora, compresso in una stanza. 
«Non c’è il cammino, ma il camminare», ricordava una misticheggiante, tarda composizione di Nono, ispirato ad una scritta sorpresa in un convento spagnolo. Il «posto» vuoto indagato da Foucault, nelle Meninas di Velazquez, non è più quello del Re, ma del semplice scugnizzo, del matto. Di noi tutti, migranti dell’immagine. Si pensi a quella straziante immagine del folle, che si offre allo sguardo del fotografo, lasciando però scendere la timida cortina del fazzoletto-schermo. Che ricorda il celebre disegno d’esordio di Paolini, che non fa che squadrare il foglio, annunciando mille «possibili» a venire, e però l’immagine non c’è. Oppure il «ritratto» del socio in disarmo da manicomio, che della gabbia di prigione, col gomito, fa spigolo d’accoglienza, teatro perenne. «Siamo sempre in attesa, in verità, di qualcosa di buono o di cattivo, non so, ma certo vivere non è altro che attesa», ti accompagna con la voce Jodice, come scivolandoti sotto un tappeto di suasione. «E poi è vero, io non ho mai cercato l’immagine bella, il risultato da appendere. Per me è importante cercare, è molto più significativo il percorso». Un «processo» che qui si dipana attraverso varie-stanze, segnate da titoli illuminanti, e spesso antifrastici: Eden, Città visibili, Transiti. Questo bel titolo, alla Francesco Arcangeli, in cui lui studia il trasmigrare di certi elementi fisionomico-antropologico, dai ceffi dipinti di Caravaggio e Ribera, ai nostri similarissimi contemporanei. Proprio come Warburg studiava il persistere di certe forme del pathos, dall’antichità dionisiaca alla sua contemporaneità futurista attraverso i suoi Chimigrammi sperimentali, i suoi Nudi deformati, figli delle performance, le sue ri-fotografie, di fotografi sintomatici e a lui cari, come Evans, Bill Brandt, Kertész. Le «verifiche» di Jodice, per dirla con una terminologia alla Mulas, sono tutte umane, come la mano, non tecnologica, che scrive «vera fotografia» su un foglio fotografico, che poi un trancetto inciderà. Come succede nella sala al pianterreno del Madre, le chiassose, scarfogliane voci del ventre di Napoli, arrivano sin entro il permeabile film di montaggio che il figlio Francesco ha tratto dalle paterne immagini di Teatro quotidiano: vero passaggio di testimone. «Epistemologia lirica», suggerisce il curatore Vigliani, parlando di «eterno ritorno» del ricorrente. Certo, come nel paradosso di Achille e la Tartaruga, l’Atleta trafelato di Jodice, che non smette di rincorrerci, tra ombre sulfuree ed essudazioni museali, è molto più vivo e contemporaneo del nostro vicino di casa. Che si accinge, ridicolo, alla strenua maratona, con una patetica panoplia di velleità del Moderno.