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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

All’Avana le Farc fanno pace cono Bogotà. Dopo 50 anni di guerriglia, 260mila morti e 60mila desaparecidos, Santos e Timoleón si stringono la mano davanti a Castro

  Oggi che la guerra dei nostri giorni ha le immagini tragiche d’un Medio Oriente in fiamme, con missili, razzi, bombardieri, armi chimiche, e anatemi messianici, pare un reperto fuori dal tempo quella penna macchiata di sangue, ma anche di speranza, con cui ieri guerriglia ed esercito hanno firmato la pace per la giungle colombiane di un’America Latina che sembra ancora quella del buon colonnello Buendía. La cerimonia si è tenuta all’Avana, crocevia ormai di venti nuovi che soffiano nel Sud del continente di Monroe (che fu, ma tuttora è, di Monroe), e Raúl Castro si è fatto fotografare con le braccia amicali sulle spalle del presidente colombiano, Juan Manuel Santos, e del comandante delle Forze Armate Colombiane, le Farc di Timoleón Jiménez: un abbraccio protettore, quasi paterno verrebbe da dire, santificato comunque dall’Onu, dai presidenti cilena, venezuelano, norvegese, ma soprattutto – e con qualche evidente ragione – dall’inviato speciale di Obama, Bernardo Aronson.
Sono cinquant’anni che in Colombia si combatte e si ammazza, con l’esercito di Bogotà da una parte (assistito però da Washington, con armi, satelliti, e rangers) e, dall’altra, una guerriglia che si muoveva e agiva nella giunga con ancora le forme operative che il Che Guevara aveva proposto nell’era geologica degli anni Sessanta, e che però era un autentico esercito di guerriglieri, arrivato a contare fino a 28 mila effettivi e a tenere il controllo politico e amministrativo di intere regioni.
In questi cinquant’anni d’un conflitto che è stato anche guerra civile, ma è stato anche guerra di interessi strategici e sociali che andavano ben oltre la geografia politica della Colombia, il disastro umanitario ha contato un bilancio che condanna la rada attenzione mediatica: a oggi, nella pace annunciata, i morti ammazzati sono più di 260 mila, con 177.307 di loro che erano civili, quasi 60 mila sono i desaparecidos, e gli sfollati hanno le stesse angosciose dimensioni – 6,9 milioni – dei disgraziati senza patria e senza futuro che oggi vediamo vagare sui nostri teleschermi in fuga dalle bombe di Assad e di Putin e di Erdogan e dai tagliagole di Al-Baghdadi.
Quando si è ritirata a chiudersi nella foresta amazzonica, nel maggio del 1964, quella delle Farc era una guerriglia che riprendeva il programma ideologico del Che, con la lotta al latifondo dominante nel paese, una rivoluzione sociale, e la resistenza al blocco formato dal legame tra i partiti politici ultraconservatori e la repressione delle forze armate. Nel tempo, e nella evoluzione che l’America Latina è andata sperimentando, le radici contadine e marxiste della lotta si sono radicate ma anche sclerotizzate, proponendosi quasi come il diorama di una storia mummificata che si intrecciava, intanto, e si inquinava, con l’espansione del mercato della droga in Usa ed Europa. Questa combinazione di interessi e di poteri ha retto la guerra guerreggiata in una spirale contorta dove progetti di pacificazione – e un autentico dialogo di pace – si alternavano alla ripresa delle operazioni militari sul terreno, dietro la spinta che gli imponeva il mercato della coca e però anche la resistenza della parte più conservatrice della società colombiana (si arrivò anche a una sospensione del conflitto e alla creazione di una forza politica ufficialmente derivata dalla guerriglia, la Unión Patriótica, ma lo sterminio che ne fu fatto, con l’uccisione di più di 3.000 di loro, chiuse questa parentesi).
Ora, la firma definitiva della pace è prevista tra un mese. Intanto, quella penna di sangue e di speranza resta sul tavolo dell’Avana, e aspetta, tra fiducia e scetticismo.