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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

Il mondo fantastico di Escher, il più grande incisore del ’900

La fantasia al potere. O forse no. Non è facile definire l’arte di Maurits Cornelis Escher, maestro dell’incisione, nato nel 1898 e scomparso nel 1972, dopo aver dimostrato, e non soltanto a parole, che “lo stupore è il sale della terra”. Succede di tutto sui suoi fogli stampati: ci sono scale da cui non si può né scendere né salire, oggetti in continua trasformazione, superfici specchianti che dovrebbero essere sottoposte alla macchina della verità. La mostra aperta al Palazzo Reale di Milano fino al 22 gennaio 2017, curata da Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea, è una vera e propria corsa nell’immaginazione più sfrenata, sottoposta però alle regole della scienza, della contemplazione della natura, della matematica e del rigore. Elementi che siamo abituati a pensare come inconciliabili Escher ce li restituisce in un’inaspettata unità, sotto forma di visione. E per quanto sia autore di opere che sono diventate vere e proprie icone della contemporaneità, il maestro olandese sembra non esaurire mai le cartucce della sua arma della meraviglia. Così anche le 200 opere qui esposte divise in sei sezioni riescono a sorprendere in questo nuovo allestimento. E se le guardi pensando a quanto abbiano anticipato pensieri e immagini che sono alla base delle nuove tecnologie digitali, ti rendi anche conto del loro potenziale profetico. Tutto inizia con un viaggio in Italia, nel pieno rispetto della tradizione della pittura nordica. L’olandese Escher arriva da queste parti con i suoi genitori all’età di 22 anni. Allora è un allievo di Jesserun de Mesquita, maestro dell’art nouveau che gli insegnerà a usare la linea in maniera espressiva e a guardare la natura come qualcosa di vitale, in continua trasformazione. Finiti i suoi studi ad Harleem, rieccolo visitare di nuovo il Bel Paese, incantandosi di fronte alle 17 torri di San Gimignano che gli sembrano un sogno, qualcosa di irreale. È proprio in questo modo che interpreterà tutti i suoi paesaggi: in un perfetto equilibrio tra la precisione del dettaglio e l’atmosfera onirica.
Nel 1923, dopo il matrimonio con Jetta avvenuto a Viareggio, decide di trasferirsi a Roma. Tra gli artisti italiani che lo affascinano ci sono due irregolari come Francesco Borromini e Giovan Battista Piranesi. L’oscurità delle
Carceri
di quest’ultimo si rivela una fonte inesauribile di idee per le invenzioni prospettiche di Escher, per gli archi disegnati per unire, in storie d’amore impossibili, muri che si trovano su piani diversi, per la genesi di paradossi e enigmi. E non è un caso che alcune stampe di Piranesi troveranno poi un posto d’onore nello studio dell’artista a Chateau d’Oex in Svizzera, dove Escher si era trasferito nel 1936 a causa del clima sfavorevole dovuto all’inasprirsi del fascismo. Nel frattempo Escher farà in tempo a guardare con attenzione anche al Futurismo: le vertiginose prospettive dall’alto di certe sue vedute probabilmente risentono della suggestione dell’aeropittura e la ripetizione di una stessa immagine, nonché una certa astrazione di carattere geometrizzante, possono riferirsi alle esperienze di Giacomo Balla.
Fin dalle prime opere qui esposte si vede come il genio di Escher sia attento a tutto ciò che lo circonda: ne La divisione delle acque mostra la sua attenzione verso il mondo di Hokusai. Per comprendere a fondo la sua arte che interpreterà il mondo in termini di horror vacui è interessante sapere che c’è un momento in cui la sua fantasia si è confrontata con l’idea del vuoto giapponese. Guardando le sue opere successive è evidente come quello stesso vuoto sia diventato deliberatamente pieno: ci sono opere in cui crea forme anche nello spazio bianco tra un’immagine e l’altra. Mosaico del 1957 è un capolavoro di invenzione in questo senso: non c’è un centimetro in cui non ci sia un animale fantastico che si incastri con il vicino. Tra le vedute italiane ecco Siena dove non c’è spazio per il cielo, accanto al colonnato di San Pietro inquadrato in un’immagine notturna che pare un’opera di Roy Liechtenstein. Molti dei lavori di Escher possono essere letti come anticipazione di una chiave pop, semplificata, della visione. Eppure tutto è estremamente complicato. L’olandese è maestro nella sintesi di ciò che senza di lui sembrerebbe contraddittorio. Il Colosseo, per esempio, Escher lo interpreta come un luogo esotico dove, più che immaginare le lotte dei gladiatori, ti sembra di poter ambientare le storie di Sheherazade.
Un altro momento di passaggio è quello della seconda visita all’Alhambra a Granada, avvenuta nel 1936. Qui Escher si lascia sedurre dalla tassellatura delle decorazioni moresche e inizia un nuovo viaggio tra particolare e infinito. Le continue Metamorfosi a cui dà vita vedono uccelli trasformarsi in pesci o in pezzature di terra coltivata, scacchiere su cui troneggiano particolari di edifici esistenti come il Duomo di Atrani. Lo specchio è un altro gioco dell’illusione con cui l’artista olandese si confronta: ci sono sfere specchianti e pozzanghere d’acqua dove gli alberi sembrano crescere al contrario. Non c’è nulla di impossibile in questo mondo dominato da bianco e nero su cui ogni tanto fa capolino un rosso, un arancio, un verde. L’invenzione si traveste con gli abiti che gli ha tagliato addosso il più abile sarto del reale. Escher a questo mondo fantastico, a questo inganno della vista e della mente ma non del cuore, ti ci fa veramente credere. Perché per primo, molto probabilmente, ci ha creduto lui.