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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

Il canale di Panama, la profonda crisi della più grande opera del nuovo millennio

 
È la grande opera del nuovo millennio, come il primo canale di Panama segnò l’inizio del Novecento. Settanta capi di Stato saranno alla cerimonia d’inaugurazione, quando una nave portacontainer cinese lo solcherà per prima dall’Atlantico al Pacifico. Nove anni di lavori e quasi sei miliardi di dollari di investimenti hanno raddoppiato la capacità del canale che collega i due oceani maggiori. Già nella vecchia versione vi transitava un terzo di tutti i traffici tra l’Asia e le Americhe. Ora potranno usarlo le nuove navi extra-extra-large, dette per l’appunto Post-Panamax.
Sono i King Kong dei mari, veri mostri capaci di trasportare fino a 14mila container invece del carico tradizionale di 5mila. È un altro colpo al Mediterraneo.
Aprendosi alle navi più grosse il neo-Panama toglie a questi cargo cinque giorni di viaggio nell’itinerario dalle grandi potenze industriali asiatiche alla East Coast degli Stati Uniti. Quindi rende meno competitivo su quelle rotte il canale di Suez, che già ha dovuto tagliare alcuni “pedaggi” del 65%.
Nonostante i record storici polverizzati, malgrado le iperboli che accompagnano l’inaugurazione, il canale di Panama nella nuova versione si apre in un momento sfortunato. La tempistica è disastrosa. L’anno scorso il traffico delle navi mercantili è calato del 10%. Tutto il business del trasporto marittimo è in crisi, si stima che ci sia un 30% di capacità inutilizzata. Con tante navi ferme in rada, in attesa di clienti, i noli scendono brutalmente. In certi casi gli armatori coprono a malapena il costo del carburante.
La Grande Opera del secolo incrocia una crisi della globalizzazione, o quantomeno una sua battuta d’arresto. Autorevoli organismi sovranazionali come il Fondo monetario s’interrogano su quel che sta accadendo: è la prima volta da molti decenni che gli scambi globali hanno cessato di crescere più del Pil, anzi addirittura decrescono. Dal dopoguerra e fino a non molto tempo fa, i commerci tra nazioni erano un motore trainante dello sviluppo mondiale; ora sono un freno. È l’effetto di protezionismi striscianti? Oppure le delocalizzazioni hanno raggiunto un tetto fisiologico e con esse anche i volumi di beni fisici che devono solcare gli oceani? O infine, abbiamo imboccato la “stagnazione secolare” teorizzata da molti economisti? Questa è l’incognita di fondo che incombe sul nuovo canale: potrebbe essere uno di quei progetti titanici scaturiti da un’estrapolazione di tendenze passate, cioè dando per scontato che i trend della globalizzazione si sarebbero prolungati all’infinito.
I problemi generati dalla crisi degli scambi e quindi del trasporto navale, si sommano a “incidenti” più specifici e locali. Pochi mesi fa c’è stata la pubblicazione dei Panama Paper: uno squarcio sul ruolo di questo Stato come oasi di traffici illeciti, evasione fiscale, riciclaggio. Le ombre e i sospetti si allungano anche sulla costruzione del nuovo canale. Dalle procedure d’appalto alla sicurezza tecnica, le polemiche hanno preceduto di molti mesi l’apertura solenne. L’impatto ambientale è uno dei punti dolenti: questa infrastruttura è una divoratrice di acqua, tra le altre cose. La Grande Opera del terzo millennio nasce con i riflettori puntati addosso, c’è anche tanta curiosità e meraviglia per le prodezze tecnologiche; ma l’attenzione non è tutta benevola.