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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

L’Italia, un accogliente paradiso offshore per i giganti del web. Da Google a Facebook

 Anno nuovo, vita (e tasse) vecchie. L’Italia si conferma anche nel 2015 – malgrado l’offensiva delle procure – un accogliente paradiso offshore per i giganti del web. I numeri, fiscalmente parlando, sono pietre: Google, Facebook, Amazon e Apple hanno continuato lo scorso anno a macinare affari e profitti nel Belpaese. Ma quando si è trattato di chiudere i conti con l’erario il loro contributo – grazie alle disinvolte triangolazioni commerciali con le holding in Irlanda e Lussemburgo – è stato poco più che simbolico: meno di 15 milioni di imposte pagati in quattro. Un terzo di quelle versate dalla Amplifon, come se gli apparecchi acustici tirassero più di iPhone e algoritmi di Mountain View.
Il “trucchetto” di Google & C., finito nel mirino dei pm di Milano, è sempre lo stesso: i bilanci delle controllate tricolori non contabilizzano le vendite reali dei prodotti in Italia ma solo i “servizi di consulenza” che le realtà di casa nostra garantiscono alle controllanti estere. Amazon, per dire, ammette candidamente il meccanismo nella sua relazione di gestione depositata in Camera di Commercio. Il centro di distribuzione di Piacenza, grande come 12 campi da calcio, marcia a pieno regime al ritmo di una consegna ogni 4 secondi. Il business italiano – è scritto nero su bianco – «è cresciuto nel 2015 del 60%». I soldi pagati dai clienti vanno però alla casa madre in Lussemburgo. E i conti dell’azienda italiana, quelli su cui si calcolano le tasse, fotografano un’altra realtà: il giro d’affari è salito da 54 a 68 milioni (+25%). L’utile, risicatissimo, è passato da 1,1 a 1,2 milioni. E l’azienda ha addirittura ridotto il carico fiscale, sceso dagli 1,8 milioni del 2014 agli 1,4 dell’anno scorso.
Stesso discorso per Google e Facebook che con Amazon sostiene Ispos – sono «i tre marchi più influenti d’Italia» davanti a Nutella e Parmigiano. I loro affari vanno a gonfie vele. Il motore di ricerca avrebbe raccolto in Italia nel 2015 1,25 miliardi di pubblicità, il social di Mark Zuckerberg 350 milioni. Per l’agenzia delle entrate, però, sono poco più che fantasmi: in due hanno pagato 2,4 milioni di tasse. Il conto di Facebook è addirittura a livello di prefisso telefonico, con una parcella erariale di 200mila euro, come un artigiano in buona salute economica.
Il Bengodi fiscale tricolore, però, è forse arrivato al capolinea. I magistrati hanno inviato ai big del web i verbali di accertamento per “omessa dichiarazione dei redditi”. Apple è stata la prima a cedere. A settembre 2015 ha chiuso i suoi ultimi conti italiani in versione offshore. Poi ha firmato la pace con i Pm, versando un assegno da 315 milioni per chiudere un contenzioso di Ires evasa da 880 milioni.
Google, per ora, resiste. La Procura l’accusa di non aver pagato 230 milioni dal 2009 al 2013 (poco più di quanto contestato ad Amazon). Ma per ora non si è ancora arrivati a una transazione. L’accerchiamento dei giudici, tra l’altro, è figlio di un pressing paneuropeo: Mountain View ha già transato con Londra una multa da 130 milioni di sterline mentre nelle scorse settimane la Gendarmeria francese ha fatto irruzione nella sede parigina di Rue Des Londres per una perquisizione legata a evasione presunta per 1,6 miliardi. L’Europa, evidentemente, non è più il paradiso (fiscale) di una volta.