Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 23 Giovedì calendario

Novant’anni fa il dirigibile Norge sorvolava il Polo Nord. Ancora oggi è ricordato come il giorno della "Grande foca volante"

Nome (Alaska) Lo chiamano ancora il giorno della «Grande Foca Volante». Sembra una creatura uscita dalla fantasia di Buzzati ciò che videro esattamente 90 anni fa un centinaio di eskimo Inupiaq a Teller, un pugno di capanne affacciato qui, sullo Stretto di Bering. Comparve all’improvviso nella bufera che spazzava la banchisa, gigantesco, ballonzolante, sempre più basso. I bambini si aggrappavano ai parka dei padri, indicando il mostro. Ma quando il comandante Umberto Nobile fece calare dal Norge le lunghe funi, gli uomini e le donne di Teller non esitarono e ancorarono la Grande Foca. Dopo giorni che il mondo non aveva notizie, a Seattle captarono il segnale: il 13 maggio il dirigibile italiano aveva sorvolato il Polo; la destinazione finale della spedizione doveva essere Nome, ottanta miglia più a Sud di Teller lungo la costa Nord Occidentale dell’Alaska, sette tecnici italiani avevano costruito l’hangar e il pilone d’attracco.
Il sindaco Thomas Gaffney aveva già predisposto la cerimonia d’accoglienza e scritto un discorso nel quale ringraziava l’Italia e Benito Mussolini (che in quegli anni godeva di grandi simpatie negli Usa). Ma gli uomini del dirigibile erano pronti al peggio. La tormenta li spingeva alla deriva, il ghiaccio appesantiva le strutture dell’aeronave, ampi squarci sbrindellavano la copertura. Nobile al comando non dormiva da 52 ore; Roald Amundsen, il mitico ed egocentrico esploratore norvegese a capo della spedizione se ne stava in silenzio accovacciato in un angolo avvolto nella pelle d’orso. Diffidava di quel napoletano che si portava dietro una cagnetta, non sopportava quegli ufficiali italiani che a bordo indossavano divise impeccabili e bevevano il caffè in tazze di porcellana. Una volta avvistate le capanne, Nobile prese a lanciare comandi perentori in italiano pure ai norvegesi in cabina e agli inuit a terra, infine la manovra riuscì e fu il momento più alto della sua carriera, poi finita male con un’altra bufera, stavolta di polemiche, suscitate dalla controversa disfatta del dirigibile Italia due anni dopo: il comandante napoletano venne accusato di aver abbandonato i compagni; Amundsen perse la vita per andare in soccorso dell’«Italia», forse con l’intenzione di dare una lezione a Nobile il quale, secondo i norvegesi, s’era preso troppi meriti sull’impresa del Norge.
Tutt’oggi l’interno di alcune baracche di Teller è foderato con la tela del Norge, mentre alla missione luterana è ancora esposta la camicia di seta fatta confezionare dal reverendo Von Zesch alla moglie con la scritta ricamata che ne celebra l’origine, «ricavata con i resti del dirigibile Norge, atterrato a Teller, dopo aver sorvolato il Polo Nord il 13 maggio del 1926».
Nello stesso giorno, novant’anni dopo, sorvoliamo Teller con un piccolo velivolo della Bering Airlines. La giornata è splendida, possiamo osservare la banchisa che si estende nel mare di Bering fino al corridoio d’acqua che separa il pack della sponda russa, distante solo 80 chilometri. «Non vediamo una bufera di neve da dieci anni in questa stagione, il ghiaccio si rompe due mesi prima rispetto a solo cinque anni fa», dice il pilota. «Il cambiamento climatico ha scatenato la febbre artica...». Intende la Polar Rush, la corsa delle grandi potenze alla conquista delle gigantesche ricchezze polari, ora accessibili grazie allo scioglimento dei ghiacci, il 30% delle riserve di petrolio e gas, il 35% degli stock di pesce del mondo. Improvvisamente l’Artico, l’ultima Thule paradigma di spazi ignoti e metafisici, è diventato centrale nella storia della civiltà. Lo Stretto di Bering è la porta d’accesso al nuovo Klondike. Con il crollo dell’Urss questo confine d’acqua era il simbolo di un nuovo mondo, le popolazioni indigene transitavano da una parte all’altra, per un periodo i rompighiaccio russi assistevano i mercantili americani diretti al rifornimento delle comunità più a Nord dell’Alaska sul mare di Chuchi. Ora quello tra Usa e Russia e l’unico Grande Freddo che si percepisce nella regione. I caccia russi sconfinano a bassa quota per mostrare i muscoli, gli americani pattugliano con sommergibili invisibili e forniscono attrezzature sofisticate di ascolto e controllo ai pescatori di granchio reale alle isole Aleutine.
«Già gli Inuit lo chiamavano la cruna dell’ago del mondo, o la porta dell’abbondanza», dice il sindaco di Nome, Richard Benneville, ex ballerino di Broadway, uno della vasta schiera di coloro che si sono dimessi dal mondo civile per rifugiarsi nella selvaggia, brutalmente reale Alaska. «La nostra vera ricchezza non è il petrolio, l’oro o il salmone, ma la Geografia», afferma. Il traffico marittimo nello Stretto aumenta del 40% l’anno. Qui transitano i grandi portacontainer che attraverso la rotta polare dimezzano, rispetto alle tradizionali tratte via Suez e via Panama, il tragitto Asia-Occidente: i cinesi la chiamano operazione Orso, ottenere, con il dominio delle rotte polari, il monopolio del traffico mercantile mondiale, che rappresenta il 90% del commercio globale. Ma lo Stretto, sull’onda della crescente richiesta turistica di Artico, è anche attraversato da ogni genere di navi da crociera, provenienti dalla California, così come dall’Asia, destinate a costeggiare le sponde dell’Artico russo oppure a inoltrarsi nel Nord dell’Alaska, per osservare balene e orche. In agosto da qui transiterà la Crystal Serenity, nave da crociera di quasi novecento piedi e con a bordo 1.700 passeggeri che compirà il mitico passaggio a Nord Ovest, circumnavigando da Seward, Alaska, lungo le coste del North Slope e degli arcipelaghi canadesi per scendere a New York. I biglietti, dai 22 ai 130mila dollari, sono andati esauriti in un mese nel 2014 quando è stata annunciata l’impresa, e i passeggeri hanno dovuto garantire la disponibilità di 50mila dollari per eventuali interventi di salvataggio.
Quando gli uomini del Norge arrivarono a Nome via mare da Teller, trovarono uno dei luoghi più folli ed eccitanti del pianeta, nel pieno boom della corsa all’oro: vi circolava così tanta ricchezza che, in occasione del terremoto di San Francisco, nel 1906 Nome, in rapporto alla sua popolazione, spedì più assegni che ogni altra città americana. Lungo Front Street, che si affaccia sul Mare di Bering, si assiepavano circa ventimila uomini e una cinquantina di prostitute, 75 saloon e due chiese. La parrocchia di St Joseph offrì un banchetto al Golden Gate Hotel agli aviatori cattolici italiani. «Il Norge scoprì che oltre il Polo si estendeva il ghiaccio e non terra ferma, come s’immaginava. Sorvolare il Polo allora era quasi come andare sulla Luna; e fa impressione, novant’anni dopo, assistere invece alla corsa per lo sfruttamento dell’Artico... L’italiano Nobile fu accolto come un nuovo Cristoforo Colombo...», dice Diana Haecker, direttrice del The Nome Nugget (La Pepita di Nome), il quotidiano più antico dell’Alaska, nato appunto in piena Gold Rush. Oggi qui vivono 3.500 persone, il 60 per cento eschimesi, ma d’estate arrivano centinaia di ragazzi in cerca di fortuna, attratti dalla popolare serie tv di Discovery Channel, Bering Sea Gold, perché si sono trovate nuove vene addirittura sul fondo del mare, l’oro è quotato 1.200 dollari l’oncia. I ragazzi si ritrovano la sera al Polar Caffè intorno al bullshit table, il tavolo delle spacconate tra cercatori d’oro; invece all’Aurora Inn, hotel dei frontier man 2.0, si discute dell’investimento da un miliardo di dollari per il nuovo porto, una delle infrastrutture nevralgiche della regione artica. Un gruppetto di eskimo staziona tra le bottiglie di whisky davanti a due piccoli monumenti, dedicati alla grande avventura del Norge, 70 ore di volo ininterrotto sulla calotta polare. Uno eretto dai norvegesi, che celebra il solo Amundsen e i suoi uomini, dove non si menziona Nobile. L’altro, eretto dall’Aeronautica militare italiana, rende omaggio alla coraggiosa conquista del Norge e al suo equipaggio: in cima compaiono i nomi di Amundsen, Lincoln Ellsworth (il magnate americano che finanziò in parte l’impresa) e infine Umberto Nobile, il napoletano che guidò la Grande Foca Volante.