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 2016  giugno 23 Giovedì calendario

La Salerno-Reggio sulla rotta dei lavori in corso (che forse non finiranno mai)

Quell’ultima trave di campata – si chiama così – dell’ultimo viadotto ancora in costruzione sulla rotta dei lavori in corso non è l’ultimo cantiere della Salerno-Reggio Calabria. Eppure, chi ricorda che quel viadotto sospeso nel cielo – quando fu progettato, negli anni Settanta, era il secondo ponte in ferro più alto d’Europa – fu abbattuto con spettacolare demolizione esplosiva solo cinque mesi fa, può cogliere oggi il segno del nuovo ritmo impresso ai lavori. E questo impressiona più della vertiginosa altezza delle campate, più di quei piloni che sembrano piantati da un Polifemo in trasferta calabra. Perché la Salerno-Reggio Calabria è la madre di tutte le incompiute, la fabbrica di San Pietro del secondo e anche del terzo millennio, che da un secolo all’altro inalbera sempre la stessa bandiera: quella con la scritta “Stiamo lavorando per voi”. A ripensarci oggi, quei dieci anni che l’Anas impiegò – dal 1962 al 1972 – per rendere attraversabile in tempi accettabili una Calabria che ancora oggi sembra non finire mai, al milanese diretto a Reggio e al siciliano che va a Roma, appaiono come un tempo brevissimo. E anche se l’autostrada del Sole era già stata completata otto anni prima (1964), anche se quella era lunga il doppio, anche se per collegare Roma e Milano erano stati spesi solo 272 miliardi contro i 362 che ne inghiottì la striscia d’asfalto da Salerno a Reggio (raddoppiando esattamente il preventivo, che era di 180 miliardi), quella temeraria impresa ingegneristica che attraversava la Sila e l’Aspromonte per collegare al resto del Paese “la terza isola” (come il socialista Giacomo Mancini definì la sua Calabria, per caldeggiare l’opera a Montecitorio) era il tassello che mancava perché si potesse dire che l’Italia – o almeno la penisola – era entrata per intero nell’era rombante dell’automobile.
Il bello, anzi il brutto, cominciò dopo. Quando ci si accorse – forse un po’ tardi – che era stato uno sbaglio stendere solo due corsie, spesso senza neanche un metro per una sosta d’emergenza. Con l’asfalto sbagliato. Con il guard-rail troppo basso. Con le curve della morte. E cominciò la sarabanda dei lavori in corso, mille miliardi stanziati dal governo Craxi appena 15 anni dopo l’inaugurazione, con i calabresi che lasciavano i campi per diventare manovali nel più lungo e interminabile cantiere che l’Italia moderna ricordi, con la ‘ndrangheta che si arricchiva con i subappalti, e chi non capiva al volo trovava le betoniere in fiamme e i serbatoi svuotati di notte, con l’esercito mandato a presidiare le ruspe. Non ci voleva molto a capire che nessuno – né i politici, né le imprese né i capibastone – aveva intenzione di permettere la chiusura di quella miniera d’oro. Che il cartello “lavori in corso” sarebbe durato più dell’asfalto.
Dopo aver sentito generazioni di ministri promettere che tutti i cantieri sarebbero stati chiusi «entro l’anno», che gli automobilisti avrebbero potuto percorrere «la prossima estate» l’intera A3 senza deviazioni, senza code e senza ingorghi, noi italiani assistiamo con una certa trepidazione (ma anche con quel sano scetticismo imposto dalla storia) al susseguirsi di demolizioni con l’esplosivo e di ricostruzioni a tambur battente. E ogni volta che ricordo la promessa del ministro Delrio e del premier Renzi di completare davvero la Salerno-Reggio entro questo Natale, mi torna in mente chissà perché il saggio disincanto con cui mia nonna – calabrese di Acri – commentava le novità più sorprendenti: «Sapim s’è ver…».