la Repubblica, 23 giugno 2016
Eco e il senso della letteratura. Una prova di maturità
A cosa serve la letteratura? Umberto Eco ha passato la vita a smontarne i meccanismi, guardarci dentro come fanno bambini e bambine nello sventrare trenini e bambole. Il gioco è quello, anche se poi, quando lo zio chiede, si risponde educatamente che da grande si vuole fare il macchinista, o la mamma. Ma poi arriva la maturità e, dato che si vuole certificare di essere stati contemporanei di un Grande, è con il lanternino che si cercano le sue affermazioni più generali e pronte a essere usate come luogo comune edificante per offrirle all’«analisi del testo», tipologia A, dei solerti maturandi. Ecco allora spuntare la buona vecchia «funzione sociale della letteratura». Non che a Eco non interessasse, riusciva a essere intelligente anche quando andava su territori pressoché istituzionali: ma ci arrivava per le vie proprie. «Di ciò di cui non si può teorizzare occorre narrare», aveva sentenziato, ironico, sulle soglie del suo esordio di romanziere: quanto sarebbe più proficuo riflettere oggi, in epoca di storytelling furibondo, su un motto di spirito sornione come questo? Oppure pensare se ci sia uno dei cinque bisogni fondamentali dell’uomo, da lui enunciati, che non abbia un risvolto letterario? Sono: nutrirsi, riposare, amare, giocare, chiedersi perché. È probabile che, in un modo o nell’altro, la letteratura li tocchi tutti. Eco suonava, da dilettante scrupoloso, il flauto dolce. Se ci riesce non confondiamo la sua voce, agile e penetrante, con quella del trombone.