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 2016  giugno 23 Giovedì calendario

Quei 60mila profughi in fuga da Falluja che vivono come cani nel deserto

«Viviamo come cani nel deserto, ma non abbiamo neppure una ciotola per mangiare, una coperta, un tappeto su cui dormire, l’acqua per i nostri figli. Ma soprattutto siamo considerati nemici: sospetti collaboratori del Daesh, soldati del Califfo. Proprio noi, che per due anni siamo stati loro schiavi: massacrati, violentati e uccisi dai suoi uomini». Il video sullo smartphone della funzionaria di una Ong arriva da Amiyrat, campo profughi improvvisato a 20 chilometri da Falluja.
I racconti del popolo in fuga dall’Islamic State confermano una cosa soltanto: in Iraq il ciclo della guerra sta preparando nuove tremende sorprese. Ai terroristi dell’Is che oggi vengono sconfitti, domani si sostituiranno i figli dei profughi sunniti che adesso vengono dispersi in tutta la provincia dell’Anbar.
Un popolo miserabile che gli sciiti del governo di Bagdad hanno terrore soltanto di fare avvicinare alla capitale. Credono che tra loro si nascondano camuffati i terroristi dell’Is che si sono tagliati le barbe. Oppure che quelle famiglie semplicemente possano essere il brodo di coltura dei nuovi terroristi sunniti. Quei miliziani che ancora adesso a Bagdad fanno saltare 5 o 6 autobombe ogni settimana, sterminano 20, 30, anche 80 sciiti alla volta nei quartieri più poveri di questa città in guerra con se stessa. Un continuo Bataclan, una perpetua Orlando che travolge insieme sciiti e sunniti.
La crisi umanitaria provocata dalla “liberazione” di Falluja, ha numeri altissimi, ma un potenziale bellico ancora tutto da comprendere. I generali iracheni da giorni dicono che la città è stata riconquistata, ma la coalizione americana racconta che due terzi del centro urbano sono ancora infestati da terroristi.
Prima o poi i cannoni iracheni sfonderanno del tutto la resistenza dell’Islamic State. Ma nel frattempo gli uomini del Califfo si sono dispersi dappertutto. Tra i profughi che di notte e di giorno hanno attraversato l’Eufrate anche a nuoto per sfuggire alla battaglia c’erano molti terroristi. Si sono nascosti in tutta la regione rurale a Sud-Ovest di Falluja, tra campi e fattorie in cui sono tornati a nascondersi per sfuggire all’esercito iracheno e alle milizie sciite di Hash al Shaab, le «forze di mobilitazione popolare», gli eserciti sciiti più forti dell’esercito federale.
«Stanno resistendo ancora, nel quartiere di Al Golan», dice il generale Abdul Wahab al-Saadi, capo militare dell’operazione, «ma ne stiamo uccidendo un buon numero». Il problema è che se l’esercito ufficiale è il solo autorizzato a combattere in città, tutt’intorno alla cintura di sicurezza il controllo del territorio è affidato alle varie milizie di Hash al Shaab. Ed è inevitabile che il ciclo di vendette sia già ripartito.
L’Unhcr e le Ong presenti in Iraq stanno ricevendo decine di denunce di violazioni. Girano i primi video di sunniti presi a calci in testa, legati ai camion e trascinati nella sabbia.
Suhayb Al Rawi, il governatore dell’Anbar, la grande provincia sunnita a Est di Bagdad che arriva fino ai confini siriano e giordano, ha accusato in tv alcuni gruppi di Hash al Shaab di avere ucciso 40 civili che erano stati consegnati loro come prigionieri a Saqalawia. Altri 643 uomini, capi famiglia e giovani di Falluja, sono scomparsi nel nulla: il consiglio tribale degli anziani di Mahadima sta provando a fare di tutto per ritrovarli ancora in vita. Il fiume di profughi si è abbattuto sull’Anbar come una alluvione in soli tre giorni nella scorsa settimana.
A Falluja c’erano ancora 80mila persone, 60 mila sono fuggite in poche ore e – secondo il capo dell’Unhcr Bruno Geddo – «nei campi Onu noi ne possiamo ospitare solo 16 mila, gli altri non sappiamo dove siano e in che condizioni».
Le milizie hanno rispettato la richiesta americana di non entrare nelle città assediate come Falluja, ma prima o poi i profughi escono dai villaggi, e le milizie si occupano dei prigionieri, e non lasciano avvicinare a Bagdad neppure i feriti più gravi. Sono iniziati anche i primi saccheggi, il governatore Rawi ha accusato gruppi sciiti di aver rubato oro, soldi, ogni valore alle famiglie in fuga. Ma l’Islamic State in Iraq è un mostro che evoca un tale terrore da non permettere ancora a nessuno dei capi sunniti di pronunciare un solo distinguo da quello che sta accadendo nel cuore di quest’area che è sempre stata il santuario dell’orgoglio sunnita.
I sunniti del resto dell’Iraq per ora rimangono a sostegno dell’operazione Falluja, i massacri non sono ancora provati, non sono state diffuse foto in tv e le violenze non sono state ancora addebitate con certezza a qualcuno. La scorsa settimana il ministro della Difesa Khalid Obeydi, un ex pilota di caccia sunnita, si è fatto riprendere in tv dopo aver pilotato lui stesso un F-16 che aveva bombardato il Daesh attorno a Falluja.
La vendetta del Daesh è sicura: il veleno che ha messo in circolo continuerà a diffondersi in tutto il paese anche quando i cannoni del generale Abdul Wahab avranno livellato le case di Falluja.