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 2016  giugno 08 Mercoledì calendario

Andrew e Jamie Wyeth, il padre e il figlio che hanno dipinto l’America d’istinto

Mentre a New York si stagliano i bagliori dell’Espressionismo astratto e furoreggia la Pop art, nel Maine e in Pennsylvania Andrew Wyeth (1917-2009) e il figlio Jamie (1946) fanno una pittura realista.
Padre e figlio hanno interessi comuni e si muovono parallelamente. Se la pittura di Andrew è più introspettiva; quella di Jamie «cerca fuori il cromatismo esuberante». Non appartenendo ad alcuna «scuola», entrambi rifiutano qualsiasi definizione, anche se poi vengono egualmente inquadrati come esponenti di un realismo made in Usa. In realtà, si muovono a caso, istintivamente; talvolta danno persino l’impressione che la loro pittura sia frutto di mani diverse.
Si veda la mostra in corso (sino al 19 giugno) al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, curata da Timothy J. Stanching: prima retrospettiva europea con circa settanta lavori. Paesaggi, interni, casolari isolati, maschere, colline, alberi secolari, nudi di uomini e donne, particolari del corpo umano. E ancora, nel sud del Maine, i litorali dell’Atlantico e nel Nord le coste frastagliate. Quindi, gabbiani, vitelli, cani, vasche da bagno sullo spiazzo davanti a casa, tartarughe, capre, gatti che si rincorrono sull’erba, stagni, riserve naturali. E splendidi ritratti degli abitanti delle due regioni («Più veri del vero», come suole dirsi).
Andrew fa la parte del leone. È figlio d’arte; suo padre, Nat Convers, pittore e illustratore, gli mette una matita in mano sin da bambino e gli insegna che «nella famiglia Wyeth l’arte non è un gioco e si prende sul serio». Ma sarà La grande parata, un film muto di King Vidor, a influenzare il ragazzo: l’averlo visto 150 volte lo spingerà a «dipingere con maggiore chiarezza possibile le sensazioni della natura».
Ecco perché i colori sono quelli dei paesaggi della sua terra, delle pareti domestiche: Pennsylvania (a Chadds Ford, nei pressi di Filadelfia, dove Andrew è nato) e Maine (a Cushing, dove trascorre l’estate). Anche quando decide di dedicarsi alle figure femminili, l’artista si guarda attorno. Le sue modelle? Due vicine di casa. La prima è Christina Olson, in Pennsylvania. La sua famiglia proviene dalla Nuova Inghilterra e Andrew è quasi suggestionato dalla storia che, nel 1692, un antenato della donna è stato giudice nei processi di stregoneria di Salem, in Massachusetts, in cui vennero condannati e giustiziati una ventina di poveri disgraziati.
Colpita sin dall’infanzia da una poliomielite spinale che le impedisce di camminare, Christina rifiuta la sedia a rotelle e, nonostante le costi una fatica enorme, sceglie di trascinarsi. Andrew le dedica un ciclo intero ( Christina’s World, «Il mondo di Cristina») che gli dà una popolarità straordinaria e fa sì che egli sia il primo pittore vivente cui il Metropolitan Museum dedica una retrospettiva.
La seconda modella è Helga Tesford (che non ha mai posato prima), una immigrata prussiana che vive nel Maine. Andrew ha una sorta di ossessione per lei (si dirà che sia stata la sua amante per una quindicina d’anni), che sfocia in ben 240 fra disegni a matita, acquerelli e dipinti, fra cui molti nudi. Particolare curioso: né la moglie di Andrew, né il marito di Helga sembra ne sapessero nulla. Lo scopriranno solo nel momento in cui le opere verranno esposte.
Anche se la critica «ufficiale» sembra ignorarlo, perché lo considera un pittore «locale», a Wyeth non mancano i riconoscimenti pubblici: Lyndon Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà (assieme a quella del Congresso, la massima decorazione degli Usa) e la rivista «Times» gli dà la copertina; Richard Nixon lo invita a esporre alla Casa Bianca; Georges W. Bush gli concede la Medaglia nazionale delle arti.
La mostra di Madrid – s’è detto – coopta anche Jamie Wyeth. Il quale, come artista, nasce da una costola del padre («È il mio più caro amico, il pittore che più ammiro»). Dopo un viaggio in Europa, dove studia i maestri fiamminghi e olandesi, Jamie arricchisce i colori della propria tavolozza. Comunque, quando si pone sulla linea «ereditata» dal padre (di cui fa un magnifico ritratto, oltre a quelli di John Kennedy, Andy Warhol, Arnold Schwarzenegger, Lincoln Kirstein che posa per lui 165 ore ecc. e altri) resta un pittore di tutto rispetto; se, invece, sposta altrove la sua attenzione – si confrontino al Thyssen-Bornemisza, protagonisti enormi gabbiani, I sette peccati capitali, le zucche (spesso scavate), i formichieri – è facile che cada, anzi che precipiti, nell’illustrazione. Che è tutt’altra cosa.