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 2016  maggio 31 Martedì calendario

E Conte riparte dal catenaccio

Conoscere il passato aiuta a vivere meglio il presente. La storia del calcio dice che l’Italia è sempre stata una squadra dura, di carattere, testarda, furba, abile a difendersi (anche ai limiti del regolamento) e pronta a ribaltare l’azione in velocità. Ci hanno appiccicato addosso l’etichetta di «catenacciari», erano gli anni Sessanta, e ne abbiamo sofferto perché, mentre le altre nazionali cercavano la bellezza, noi ci accontentavamo delle briciole, spedivamo il pallone in tribuna e chi s’è visto s’è visto. In giro per il mondo gli italiani erano «pizza, mandolino, mafia e catenaccio». Il giudizio, negli anni, non è cambiato di molto, nonostante siano state tentate altre strade: dalla frizzante Italia di Vicini a quella tutta schemi, pressing e intensità di Sacchi per arrivare al cosiddetto «calcio propositivo» di Prandelli. La verità è che, si chiudano le orecchie i teorici che sostengono la supremazia del gioco sulle qualità dei giocatori, le case si costruiscono con i mattoni che si hanno a disposizione: se il materiale è di bassa qualità, ci si deve adeguare.
ATTACCO E DIFESA Il fatto che i nostri migliori elementi sono i difensori non ci deve far arrossire di vergogna. Capita, ci sono momenti in cui nascono bravi attaccanti, altri nei quali c’è abbondanza di centrocampisti, e adesso invece ci aggrappiamo ai quattro moschettieri della Juve: Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini sono le colonne sulle quali appoggiare le nostre idee. Il passato c’insegna che non sempre si vince andando all’attacco in modo scriteriato: Bearzot, al Mundial dell’82, non era certo un pericoloso offensivista eppure quella nazionale ci ha regalato una gioia che dura ancora oggi. E pazienza se i brasiliani e gli argentini ci ricordano ancora di come Gentile si aggrappò alle magliette di Zico e di Maradona: se ne faranno una ragione e, nell’attesa, noi ci teniamo stretta la Coppa del Mondo. Anche gli azzurri di Lippi, gli ultimi a farci vivere l’orgoglio della vittoria, a Berlino nel 2006, non brillavano per lo stile offensivo: era una squadra, anzi, che faceva venire il batticuore, e forse proprio per questa ragione riusciva a trascinare la gente, a coinvolgerla. Il libro del calcio dice che, quando l’Italia ha trionfato, lo ha fatto sempre più in nome del carattere e del temperamento che del gioco e dello spettacolo. Il nostro spettacolo, lo spettacolo italiano, non sta in un dribbling, in una finta, in una banale «veronica», ma nel risultato. Se vinci, sei bravo (anche se hai giocato male). Se perdi, sei scarso (anche se hai giocato bene). Una volta mandata a memoria questa regola aurea, si possono affrontare tutti i temi tattici, tecnici e atletici.
PALLA LUNGA La nazionale di Conte sembra disegnata apposta per fare difesa e contropiede. Cioè: per aspettare le sfuriate degli avversari, alzare il muro davanti a Buffon, ributtare indietro il pericolo, e poi ripartire velocemente dalla parte opposta del campo cercando di sfruttare gli spazi che il nemico, inevitabilmente sbilanciato, concede. Il 3-5-2 che il c.t. sta inculcando nella testa dei suoi ragazzi è il modulo perfetto per interpretare le partite in questo senso: i due esterni, che hanno il doppio compito di difendere e attaccare, sono le chiavi del gioco. In sostanza l’Italia dovrà essere abile a ritrarsi, talvolta anche ad arroccarsi, senza mai dimenticare la possibilità di ribaltare la manovra. Per farlo ci sono due registi: uno è il libero, quindi Bonucci; l’altro è il mediano centrale, molto probabilmente De Rossi. Saranno loro, con lanci precisi e sempre in verticale, a dover pescare gli esterni che scattano all’improvviso sorprendendo gli avversari. L’alternativa di gioco è il pallone lungo sulla prima punta (Pellè è l’ideale per questo movimento) che ha il compito di girarlo, quasi a occhi chiusi, sulle fasce o sui piedi del secondo attaccante che gli sta sempre vicino. Questa manovra, cioè il duetto tra i due elementi offensivi, Conte la faceva quando allenava il Bari e ne avrà sicuramente memoria.
PSICOLOGIA Gli esteti criticheranno questo atteggiamento, già vediamo i filosofi del «calcio offensivo» alzarsi dai loro divani e puntare il dito contro questo modo antico di giocare. Si rassegnino: questa Italia non ha la qualità per imporre la propria cifra tecnica, deve adeguarsi al nemico e sfruttarne gli errori. È questione di psicologia: gli italiani, da sempre, sono un popolo che si esalta nelle difficoltà, sopporta terribili umiliazioni, resta in silenzio per decenni (o ventenni...) e poi, come d’incanto, ritrova il coraggio, la forza e la voglia di riscattarsi. Il nostro calcio è lo specchio di questo modo di vivere, e non c’è da vergognarsene. Pretendere il tiqui-taca dagli azzurri di Conte sarebbe pure follia: non abbiamo centrocampisti adatti. Molto più saggio lasciare «spagnoleggiare» gli spagnoli, e pensare a fare gli italiani. Con orgoglio e senza complessi d’inferiorità, possibilmente. Il possesso-palla, tanto per fare un esempio, è diventato una specie di stella polare del calcio moderno, ma siamo davvero sicuri che sia sinonimo di spettacolo e di successo? Governare il gioco va bene, a patto che lo si faccia con la necessaria velocità. Altrimenti gli avversari si chiudono, tolgono spazi e aria. Certo, se hai Messi, puoi permetterti il titic-titoc, ma se Messi non ce l’hai devi inventarti qualcosa di diverso. E questo «qualcosa», per l’Italia di Conte che nasce nell’epoca del cholismo, è il vecchio, sano e mai dimenticato contropiede. Gli altri ti attaccano, tu ti difendi, trovi le forze per reagire, ti rialzi e, con astuzia, li sorprendi e vinci. Dopo il disastro di Caporetto, e gli assalti respinti sul Piave, c’è sempre una Vittorio Veneto. Ecco perché conoscere il passato aiuta a vivere meglio il presente.