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 2016  maggio 31 Martedì calendario

A chi affidiamo le nostre figlie

Ridevamo quando uno scorbutico Robert De Niro, in «Ti presento i miei» di Jay Roach, imponeva la macchina della verità all’aspirante sposo della figlia. Si affloscia nel sangue quella risata mentre contiamo le ragazze e donne assassinate da uomini persi in un delirio di possesso e protesi a cancellare con l’orrore la propria inadeguatezza e sconfitta.
Con la sua esasperata diffidenza De Niro dipingeva nel grottesco l’ansia dei genitori al momento dell’inevitabile adesione a una libertà e a una vita nuove e sconosciute delle figlie. Un passaggio faticoso ma colmo d’affetto e speranza, accompagnato da qualche inquisitorio bisticcio sulla storia di lui e della sua famiglia, il lavoro, la serietà, la fedeltà. Ora sotto quegli interrogativi ne scivola come un serpente un altro incupito dal ritmo costante – come la colonna sonora di «Profondo rosso» – delle notizie di violenza e morte: 37 vittime dall’inizio dell’anno, 128 nel 2015.
Sulla poltrona del cinema o sul divano di casa abbiamo sorriso di noi-De Niro, abbiamo riflettuto con «Indovina chi viene a cena?» di Stanley Kramer, del 1967 (era in prima serata domenica): l’apprensione di Spencer Tracy di fronte al fidanzato nero della figlia era, più che diffidenza razziale tout court, paura per il futuro tribolare di una coppia mista in un’America lontana da Obama presidente (41 anni dopo), paura di un futuro di fatica ma di vita, superata poi dal riconoscere l’amore quale valore insuperabile.
Abbiamo pensato e abbiamo riso. Ora la «macchina della verità» non ha più tinte così assurde, perché la domanda si torce nell’impotenza: affidiamo nostra figlia al carnefice, con la colonna sonora di Fabrizio De André: «Camminavi fianco a fianco al tuo assassino»? E a un cieco contorno di comparse distratte: «Ha lanciato grida disperate di aiuto, nessun automobilista si è fermato. Se ciò fosse accaduto forse Sara oggi sarebbe viva», ha scandito il procuratore aggiunto Maria Monteleone. Un mondo muto, spaventato o indifferente, tanto timoroso di trovarsi immischiato da non comporre nemmeno tre cifre su un telefono cellulare?
In meno di 48 ore un giovane ha bruciato viva la ragazza che non lo voleva più, un padre ha ammazzato il figlio prima di uccidersi. All’amore o al pianto si sono sostituiti il possesso e la distruzione – o lo scempio – di ciò che non è o non sarà più nostro. Pistole, coltelli, fuoco, oppure acido. L’anno scorso sono stati quasi 1200 gli «ammonimenti» ordinati dai questori, oltre 200 gli allontanamenti dal nucleo familiare o dalla coppia. E queste misure – sintomatiche del problema e irrinunciabili – sono talora altro alcol sulla fiamma accesa da personalità non sempre intercettabili nella deriva, mai al primo sorriso.
Sappiamo che un’innamorata osteggiata si può ancor più intestardire, non vuol riconoscere o ammettere ciò che agli altri si fa evidente, cerchi di negare a se stessa evidenze. E vediamo che là dove la realtà si staglia e induce a fermare la corsa divampa una violenza premeditata agghiacciante, consumata nel vuoto sociale. Ogni richiesta d’aiuto, ogni provvedimento dell’autorità, ogni sentenza sono risposte importanti di volta in volta, ma purtroppo non insegnano, non educano. Il fenomeno è altro, più profondo e meno «confortante» del liquidare tutto con la follia: è nell’involuzione di una società, dove individualismo ed egoismo arretrano e ripiegano l’uomo in malintesi sensi di possesso, onore, orgoglio. L’unica strada perché il conteggio non continui a gonfiarsi nel vicino futuro è educare – in casa e a scuola – al rispetto e al rapporto con il mondo esterno, ma anche alla rinuncia e alla sconfitta. Subito, senza aspettare di piangere figlie distrutte e figli stupefatti dietro le sbarre a piangere di rabbia contro la vittima: sono qui per colpa tua.