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 2016  maggio 31 Martedì calendario

1946, Marco Travaglio racconta come l’Italia diventò una Repubblica (prima puntata)

“Oggi la benzina è rincarata, è l’estate del ’46, un litro vale un chilo d’insalata. Ma chi ci rinuncia? A piedi chi va? L’auto, che comodità! Sulla Topolino amaranto dài siedimi accanto che adesso si va. Se le lascio sciolta un po’ la briglia, mi sembra un’Aprilia e rivali non ha. E stringe i denti la bionda, si sente una fionda e abbozza un sorriso, con la fifa che c’è in lei. Ma sulla Topolino amaranto si sta ch’è un incanto nel ’46…”. Il clima è la speranza, è la gioia incredula della pace ritrovata dopo tanta guerra, della democrazia da costruire dopo tanta dittatura, è la novità, è la voglia di rimboccarsi le maniche, è l’ebbrezza di ricominciare spediti, un po’ spaventati e un po’ incoscienti, come sulla Topolino amaranto di Paolo Conte.
Vittorio Emanuele III – il Re Soldato, il Re Sciaboletta che s’è piegato per 21 anni a Mussolini, ha gettato nel fango la monarchia, poi troppo tardi ha fatto arrestare il Duce, ha impapocchiato l’armistizio all’italiana e infine è fuggito come un ladro, lasciando l’Italia nella sanguinosa incertezza della guerra civile – ha finalmente abdicato alle ore 15 del 9 maggio 1946 con 16 parole, proprio come il trisnonno Carlo Alberto nel 1849: “Abdico alla corona d’Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte”. Dopo 46 anni di regno. La cerimonia, breve e un po’ tetra, si è svolta nella villa reale di Posillipo, dove il vecchio monarca si è ritirato da più di un anno dopo aver nominato il figlio Umberto “Luogotenente del Regno”. Meno di cinque ore dopo, i conti di Pollenzo, cioè l’ex re e l’ex regina Elena, si sono imbarcati sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”, destinazione Alessandria d’Egitto.
La notizia è rimbalzata a Roma come una bomba, nel pieno della campagna elettorale in vista del 2 giugno, quando gli italiani saranno chiamati democraticamente alle urne per la prima volta dopo oltre vent’anni, per scegliere la forma di Stato nel referendum Monarchia-Repubblica e a eleggere l’Assemblea Costituente. Solo il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi sapeva già tutto da qualche giorno in via ufficiosa, ma ha preferito non informarne i colleghi del governo di unità nazionale, per evitare polemiche. Che infatti sono esplose furibonde l’indomani. Umberto II ha subito inviato a De Gasperi un messaggio rassicurante: “Questo atto non muta in nulla i miei poteri costituzionali da me esercitati in qualità di Luogotenente Generale; né modifica in alcuna maniera l’impegno da me assunto in confronto del Referendum e della Costituzione”. E il Comando Alleato ha diramato commenti dello stesso tono. Ma il segretario del Pci e ministro della Giustizia Palmiro Togliatti non s’è accontentato: “Questa è l’ultima fellonia di casa Savoia: Vittorio Emanuele III non può abdicare perché ha già abdicato una volta”. E ha chiesto a De Gasperi, dinanzi a quella plateale violazione della tregua istituzionale, di assumere ad interim le funzioni di capo dello Stato. Ma per gli altri ministri, compreso il leader socialista Pietro Nenni, l’abdicazione è un “atto interno di casa Savoia” e il Migliore s’è ritirato in buon ordine. Anche perché una crisi di governo avrebbe comportato il rinvio delle elezioni, consentendo al giovane neo-re Umberto II di guadagnare consensi. Proprio sullo slittamento del voto, infatti, puntano i monarchici, facendo leva sul fatto oggettivo: se si voterà il 2 giugno resteranno escluse le centinaia di migliaia di italiani che si trovano ancora all’estero come prigionieri di guerra, oltre agli abitanti della Venezia Giulia, le cui sorti sono ancora in mano alle potenze vincitrici. Le sinistre preferirebbero invece che a decidere fra Monarchia e Repubblica fosse la Costituente, rinunciando a un referendum tanto “rischioso”. Ma De Gasperi taglia corto: deciderà il popolo italiano.
La campagna elettorale è vivacissima, ricca di episodi tragicomici e di personaggi pittoreschi. Sui muri di Roma i compagni trinariciuti (come li chiama Giovannino Guareschi) scrivono “Ha da venì Baffone”, cioè Stalin. A Napoli impazza, tra i fan della monarchia, un tal Navarra, ricchissimo borsanerista detto “il re di Poggioreale” che va in giro per la città con la giacca bene aperta per mostrare il disegno sulla sua maglietta: una bandiera tricolore con al centro lo stemma sabaudo. La gente si accalca ai comizi dei leader. Anche il re Umberto II, come De Gasperi, Togliatti e Nenni, percorre in lungo e in largo l’Italia, tenendo discorsi, stringendo mani, distribuendo onorificenze. Al Sud viene accolto bene, al Nord un po’ meno e spesso i suoi simpatizzanti vengono malmenati dai repubblicani nell’indifferenza delle forze dell’ordine. Ma, ai più stretti collaboratori, appare rassegnato alla sconfitta: “La Repubblica – ripete – può reggersi con il 51 per cento dei voti, la Monarchia no”. Alla vigilia del voto, da Genova, lancia un proclama agli italiani: promette, in caso di vittoria, un altro referendum dopo la Costituente.
Poi, finalmente, ecco il 2 giugno. I giornali consigliano alle donne, chiamate a votare per la prima volta, di rinunciare al rossetto per non rischiare di macchiare la scheda rendendola nulla. Gli italiani votano in tranquillità, mentre il mondo politico è percorso da una febbrile agitazione, tra voci di complotti, colpi di Stato e brogli da una parte e dall’altra. Di certo ci sono soltanto le minacce comuniste di sciopero generale in caso di vittoria del Re e gli strani movimenti di ex partigiani garibaldini e soldati di Tito in alcune località del Nord Italia. Il ministro dell’Interno Giuseppe Romita, socialista, dirà di esser sfuggito a un rapimento e lo storico Giovanni Artieri sosterrà che la sua fu un’astuta mossa per modificare la topografia del Viminale per rimescolare i voti a favore della Repubblica (“mediante chiusure di corridoi, aperture di altri, uso di paraventi e sbarramenti aleatori di plastica: tutto per rendere accessibili ai soli fiduciari del ministro certi uffici…”). E le voci di giganteschi brogli anti-monarchici si rincorreranno per tutti i successivi settant’anni.
De Gasperi va a votare di buon mattino, non si sa bene come: per la Repubblica, secondo la figlia Maria Romana; per la Monarchia, secondo il suo fedelissimo Mario Scelba e il ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Anche la regina Maria Josè è fra le prime a recarsi ai seggi: confiderà poi di aver dato, per la Costituente, la preferenza al socialista Giuseppe Saragat. Umberto, sempre più pessimista, incarica quella stessa mattina il suo aiutante di campo, generale Infante, di fissare per l’indomani un colloquio con De Gasperi, per concordare i particolari della sua partenza per l’esilio. Incontro che puntualmente avviene il lunedì 3 giugno.
I primi risultati arrivano al Viminale nella serata del 3. E sulle prime si profila un clamoroso colpo di scena: la Monarchia, sia pur di poco, è in vantaggio. Così il ministro Romita, acceso repubblicano, racconterà quelle ore convulse: “Intorno alle 24 sembrava che ogni speranza fosse perduta. Mi chiusi nello studio per scorrere e riscorrere quei dati. No, non era possibile! Eppure le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile!”. Poi, nella notte, il risultato si capovolge. Qualcuno insinuerà che, per risollevare le sorti della Repubblica, Romita abbia estratto dai cassetti un milione di schede precompilate. Ma la spiegazione più plausibile del ribaltone è un’altra: i primi risultati giunti al Viminale sono quelli del Sud Italia, che in maggioranza ha scelto la Monarchia, mentre per ultime sono arrivate le schede delle regioni settentrionali, più coinvolte nella lotta partigiana, più ferite dall’occupazione nazista e ancora percorse dal “vento del Nord” fieramente repubblicano. Alla fine la Repubblica ottiene 12.182.000 voti contro i 10.362.000 della Monarchia. Delle prime voci sull’esito finale De Gasperi informa subito re Umberto, dicendosene “dolorosamente sorpreso”. I due mettono a punto gli ultimi particolari del protocollo per il passaggio dei poteri, che avverrà non appena la Corte di Cassazione avrà proclamato ufficialmente i risultati definitivi.
Ma il 7 giugno tutto va in fumo. Due giuristi padovani presentano alla magistratura un ricorso contro i risultati del referendum, calcolati dal governo in base al numero dei voti validi e non degli elettori votanti, come invece vorrebbe la legge. I liberali Cassandro e Cattani fanno propria la contestazione: conteggiando anche il milione e mezzo di schede bianche nulle, sostengono che la maggioranza repubblicana scenderebbe dal 54,26 al 51,01 per cento; un margine tanto esiguo da poter essere annullato col minimo spostamento di voti, in caso di errori o di brogli accertati. Il governo, impreparato e imbarazzato, non sa cosa rispondere, mentre l’Unità annuncia: “Un colpo di stato monarchico è fallito per iniziativa comunista. La forza della risorgente democrazia ha stroncato la losca manovra neofascista”. Tutti attendono con ansia il pronunciamento della Cassazione, fissato per il giorno 10. Ma quella sera il primo presidente della Corte, Giuseppe Pagano, non si pronuncia su nulla, limitandosi a dare frettolosa lettura dei risultati sino ad allora pervenuti: “La Corte emetterà in altra ordinanza il giudizio definitivo”. Tutto rimandato: l’Italia non è più una Monarchia, ma non è ancora una Repubblica. E rimarrà in questo limbo istituzionale un’altra settimana.
I due giorni che seguono sono i più concitati. Il re, irremovibile nel proposito di restare al suo posto fino al “giudizio definitivo”, si scontra più volte con De Gasperi, che fa continua spola tra Quirinale e Viminale (dove il governo è riunito in permanenza) dibattendosi tra la rigidità del sovrano e l’intransigenza dei partiti di sinistra.
L’11 giugno si festeggia una Repubblica non ancora nata. Le aziende osservano l’orario festivo, il governo stabilisce che venga distribuita doppia razione di sigarette. Nel pomeriggio, l’ultimo incontro tra De Gasperi e Umberto. L’appuntamento è fissato per le 16, ma il re arriva con un’ora e 20 di ritardo, dopo che De Gasperi ha più volte minacciato di andarsene. Umberto II si dice disposto a delegargli il potere, ma chiede altro tempo. “Senta, io le parlo come in sacramento”, risponde irritato il leader democristiano: “A me non importa nulla, posso sparire domani stesso. Ho due sole cose a cuore che ho sempre difeso: l’unità morale e l’unità territoriale dell’Italia. Sono entrambe in pericolo. Non faccia un passo falso, danneggerebbe oltretutto la dinastia che finora si è comportata in modo tale da potere in un eventuale domani aspirare a ritornare. Non rovini la sua reputazione”. Da Napoli intanto giunge notizia di scontri tra polizia e il popolino dei “bassi” fedele alla Corona: barricate, spari e assalti alla sede del Pci che inalbera la bandiera sovietica. I morti sono 12 e un farneticante “Movimento di liberazione del Mezzogiorno” lancia proclami inneggianti a Masaniello e contro la Repubblica.
Lo stesso 12 giugno, in serata, il governo rompe gli indugi decretando “l’instaurazione di un regime transitorio durante il quale… l’esercizio delle funzioni del Capo delle Stato spetta ope legis al Presidente del Consiglio in carica”. Il re apprende la notizia a casa del giornalista Luigi Barzini. E quella sera si torna a parlare di complotti, colpi di Stato, possibili attentati. Umberto pernotta in casa di amici. Togliatti chiede asilo all’ambasciatore sovietico, Nenni a un amico monarchico. Neppure De Gasperi dorme in casa sua. Timori infondati. Umberto, resistendo alle pressioni del suo entourage, ha già deciso di partire. Dichiarerà anni dopo: “Se avessi mai pensato che fosse mio dovere, nell’interesse dell’Italia, ricorrere alla forza, non mi sarebbero mancati gli uomini pronti a seguirmi, né i mezzi, né le occasioni. Non ho mai considerato questa possibilità perché avrebbe gettato il Paese inevitabilmente in una lotta fratricida che ne avrebbe messo in pericolo l’indipendenza e l’unità”.
Lasciata a Falcone Lucifero la bozza ancora incompleta di un suo proclama agli italiani, il sovrano raggiunge in auto l’aeroporto di Ciampino, dove lo attende un quadrimotore “Savoia Marchetti 95” per condurlo in esilio. E, appena atterrato a Lisbona – racconterà Barzini – zittisce i suoi collaboratori che vaneggiano di future riscosse monarchiche e ritorni in Italia: “Le Monarchie sono come i sogni. O si ricordano subito o non si ricordano più”.
In molte cittàitaliane la gente cammina ancora sulle macerie. Mancano le case (sono 6 milioni i vani distrutti dalla guerra), le strade, i servizi pubblici. Il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione parla di “un abbassamento del tenore di vita a livelli tali da far temere fortemente per l’esistenza stessa del popolo italiano”. Il valore della lira scenderà in autunno addirittura di due terzi. La scarsità del raccolto di grano del 1945 (42 milioni di tonnellate contro gli 80 del 1938) impone al governo di confermare il razionamento del pane.
La sopravvivenza degli italiani è affidata al buon cuore (tutt’altro che disinteressato) di Stati Uniti e Gran Bretagna, da cui il Paese importa tutto: dal grano agli insetticidi. La borsa nera e gli accaparramenti dilagano e costringono il governo a provvedimenti impopolari: dall’8 giugno le operazioni di mietitura e trebbiatura saranno controllate dai carabinieri. Risultato: rivolte contadine un po’ in tutta Italia. I ristoranti di categoria “extra e di lusso” sono aboliti per decreto. E uno spettro si aggira per l’Italia: la fame. Ma sulla Topolino amaranto si sta ch’è un incanto nel ’46…
 

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