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 2016  maggio 31 Martedì calendario

Il tiro al bersaglio contro la Raggi

Anzitutto, una premessa. I cittadini romani, per la prima volta dopo tanti anni, possono stare tranquilli, almeno sulla onestà del loro futuro sindaco. Chiunque lo diventi dà ottime garanzie di non rubare. I tre favoriti per il Campidoglio – nell’ordine dei sondaggi: Virginia Raggi, Roberto Giachetti e Giorgia Meloni – non sono mai stati coinvolti in scandali e sono da tutti ritenuti persone perbene. Nel libro appena pubblicato dalla nostra Paper First I quattro re di Roma, abbiamo svelato i loro altarini e talloni di Achille, sui quali gli interessati ci hanno fornito le loro spiegazioni, che tutti possono verificare sul punto della trasparenza e della persuasività. Poi, certo, l’onestà personale non basta per fare un buon sindaco. Ci vogliono competenze e squadre adeguate. E le compagnie che circondano i tre favoriti suscitano parecchie perplessità. Quella della Raggi risente dei soliti sospetti di inesperienza e improvvisazione che da sempre inseguono i 5Stelle. Quelle di Meloni e Giachetti, rappresentando alcuni dei partiti coinvolti in Mafia Capitale e nelle disastrose gestioni della Capitale, comportano il pericolo opposto: l’eccessiva continuità. Ma queste valutazioni, una volta conosciuti i candidati, spettano agli elettori.
Ciò detto, da qualche settimana la grande stampa in perfetta sinergia con i vecchi partiti si sta esercitando nel tiro al bersaglio contro Virginia Raggi. E non per fatti documentati, tipo la sua giovanile pratica legale nello studio Previti, al seguito del suo docente di laurea Alessandro Sammarco, taciuta inizialmente nel curriculum, come pure il ruolo di presidente per un anno della società Hgr, di cui era azionista di maggioranza l’assistente di un fedelissimo di Alemanno, l’ex Ad di Ama Panzironi, poi coinvolto nella Parentopoli capitolina e in Mafia Capitale. Quegli episodi, su cui la Raggi ha fornito le sue spiegazioni, non hanno turbato gli elettori romani. Almeno a giudicare dai sondaggi. Anche perché tutti sanno che la pratica legale consiste nel portare borse e fare fotocopie, mentre la presidenza di Hgr era un ruolo tecnico e di garanzia, a titolo gratuito, per conto dello studio Sammarco di cui la società era cliente. Così, non sapendo come altro screditare la giovane candidata, i partiti e i giornaloni al seguito hanno cominciato a dipingerla come una mezza ebete telecomandata dalla Casaleggio & Associati (dove, morto il fondatore, trama nell’ombra il figlio Davide con tutta la Spectre). Il tutto perché la Raggi ha detto una mezza ovvietà.
E cioè che, se il garante del movimento Beppe Grillo le chiedesse di dimettersi in caso di avviso di garanzia o di violazioni delle regole dei 5Stelle, lei lo farebbe. Ora, la Raggi non brilla certo per simpatia nè per calore umano. Ma, nelle poche comparsate televisive, è apparsa piuttosto sicura di sé, abile a controbattere o a scansare le domande trabocchetto, insomma tutto fuorché una sprovveduta. Che poi in quello strano non-partito che sono i 5Stelle le regole siano, per così dire, elastiche e intermittenti e le espulsioni fiocchino copiose e spesso ingiustificate, l’abbiamo più volte stigmatizzato. Anche per il minacciato licenziamento di Pizzarotti. Quindi, per carità, si può eccepire finché si vuole e a buon diritto sulla possibilità che l’eventuale sindaca Raggi, una volta eletta dal popolo, un bel giorno se ne vada perché Grillo ritiene abbia violato il codice M5S.
Ma ciò che stupisce è lo stupore di chi si stupisce: il vertice del Pd. Con che faccia questi tartufi parlano dell’eventuale cacciata di Pizzarotti o delle futuribili dimissioni della Raggi, dopo aver inscenato a gennaio manifestazioni sotto il Comune di Quarto per invocare le dimissioni della sindaca Rosa Capuozzo, neppure indagata, salvo poi difenderla non appena fu espulsa dal M5S e ora farci addirittura una giunta insieme (con i 5Stelle espulsi e con Forza Italia)? Ma soprattutto: da che pulpito viene la predica? Nell’ottobre scorso il Pd cacciò proprio dal Comune di Roma il suo sindaco Ignazio Marino, eletto dal popolo appena due anni e mezzo prima, per ordine del premier-segretario Matteo Renzi, nonché del presidente Matteo Orfini, che costrinsero i consiglieri comunali del Pd (insieme ad Alfio Marchini) a firmare un atto di sfiducia non in Consiglio comunale, ma davanti a un notaio, senza mai spiegare chiaramente il perché. Dissero che Marino governava male e, soprattutto, aveva nascosto al partito di essere indagato: esattamente ciò di cui Grillo e il direttorio 5Stelle accusano Pizzarotti. Ma chi caccia Marino è democratico (lo dice il nome stesso del partito), mentre chi minaccia di cacciare Pizzarotti è totalitario. L’altra sera, in tv, anche la vicesegretaria Debora Serracchiani ironizzava sulla Raggi, “potenziale sindaco eterodiretto”. Ma perché, i consiglieri comunali del Pd trascinati da Orfini nello studio di un notaio e ivi segregati fino a che l’ultimo non firmò la sfiducia a Marino, che cos’erano: uomini liberi o eterodiretti? E, se Marino era ritenuto così incapace a governare, com’è che Giachetti ha richiamato nella sua squadra tre suoi assessori (Sabella, Scozzese e Rossi Doria), più due persone che l’ex sindaco aveva invitato nella sua giunta (Sinibaldi e Di Serio, che allora rifiutarono)?
Auguriamo a Giachetti, se mai diventerà sindaco, di non entrare mai in rotta di collisione con Renzi e le lobby retrostanti, come accadde all’allegro chirurgo: altrimenti un giretto dal notaio non glielo leverebbe nessuno. E potrebbe addirittura capitargli di peggio: essere difeso dai consiglieri eterodiretti dei 5 Stelle e dalla telecomandata Virginia Raggi.