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 2016  maggio 31 Martedì calendario

Cosa ci ha lasciato Luciano Lama

Il signor Cgil è morto vent’anni fa. Era il 31 maggio del 1996, il giorno della fiducia al governo Prodi. Luciano Lama ha lasciato questo mondo proprio nelle ore in cui si realizzava il sogno della sua vita: la sinistra, tutta la sinistra unita, alla guida del Paese. L’Ulivo e la Quercia, simboli forti, con salde radici in quel riformismo emiliano e romagnolo del quale era impastato l’uomo che per sedici anni, dal ’70 all’86, ha guidato, dandogli il suo volto, in uno scambio d’immagine e somiglianza, sorta di reciproca metamorfosi, il più grande sindacato italiano.
Tante le vittorie, tante le sconfitte, molti gli errori, sempre riconosciuti, con razionalità e pragmatismo. Amava definirsi «un riformista unitario». E l’unità, come valore in sé, è sempre stata la sua bussola, da quando, nel novembre ’44, ancora con il mitra in mano, divenne segretario della camera del lavoro a Forlì. Giuseppe Di Vittorio nel ’47 lo volle tra i suoi vice. Fu responsabile dei chimici e dei metalmeccanici, deputato del Pci fino al ’69 (il congresso di Livorno sancì l’incompatibilità tra incarichi sindacali e mandati elettorali) e l’anno seguente prese il posto di Agostino Novella alla guida della confederazione. Il sindacato era un’onda montante, in continua crescita di successi, di prestigio, di potere. «Il gigante buono», in una definizione di Aris Accornero.
Nel ’75 l’accordo con Gianni Agnelli sul punto unico di contingenza: lo stesso Lama ammise poi che si trattò di una scelta sbagliata, in quel momento inevitabile, che portò all’appiattimento dei salari peggio che in Unione Sovietica. Poi, nella seconda metà degli anni settanta, l’inflazione, la disoccupazione, il terrorismo. Il 17 febbraio del ’77, il giovedì nero, il segretario della Cgil non poté finire il suo comizio nell’Università di Roma e dovette allontanarsi in tutta fretta inseguito dagli autonomi. Racconterà poi che fu uno dei momenti di maggiore solitudine perché non ebbe quella solidarietà che si sarebbe aspettato, amareggiato anche dalla freddezza di Enrico Berlinguer (Gianpaolo Pansa, Intervista sul mio partito, Laterza). Da allora una vita blindata e una linea d’intransigente fermezza contro ogni forma di violenza e d’intolleranza.
Poi la svolta dell’Eur, la politica dei sacrifici in cambio di riforme e di sviluppo, il salario non più come variabile indipendente, la sconfitta alla Fiat nell’80 con la marcia dei 40 mila, il Pci passato dalla fase del compromesso storico e della solidarietà nazionale a quella dell’alternativa e dell’opposizione dura. La fase più difficile per Lama, strattonato tra il desiderio dell’unità sindacale e la fedeltà al partito. Fino al decreto del governo Craxi con il taglio della scala mobile e il referendum abrogativo voluto da Berlinguer. Pur tra tante difficoltà, il segretario della Cgil cercò di tutelare l’unità della sua confederazione e i rapporti con Cisl e Uil (Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie, Il divorzio di San Valentino, fondazione Bruno Buozzi). E dopo la sconfitta nelle urne, ricominciò a tessere la sua tela.
Poteva diventare segretario del Pci, Francesco Cossiga lo voleva nominare senatore a vita con Gianni Agnelli ma depennò il suo nome dopo una puntuta intervista del signor Cgil, candidato alla presidenza della Repubblica ai tempi dell’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. Ha finito il suo percorso politico e sindacale come sindaco di Amelia, dove si concluderà anche la lunga serie di commemorazioni che ha preso il via in questi giorni.
«Lama era un riformista», parola di Pierre Carniti. Il sindacalista con la pipa non amava le utopie, non credeva nella costruzione di mitiche città del sole, definiva un’araba fenice prospettive come la terza via indicata da Berlinguer. Tutela dei lavoratori, crescita del Paese, patto tra produttori, difesa strenua della democrazia, unità a tutti i costi, rifiuto di estremismi velleitari e pericolosi. Anche nei giorni della sua malattia e della nascita del governo Prodi metteva in guardia, profetico, dal pericolo dei no di Fausto Bertinotti e ammoniva a non abbandonare mai la strada del rigore (Pasquale Cascella, Cari compagni, Ediesse).
Poteva fare scelte più nette, magari strappando con il Pci? Secondo Carniti «le cose sarebbero andate diversamente ma lui era una persona molto leale, con un forte senso di appartenenza politica e sociale» (lo ricorda Benvenuto nel suo libro). Era un figlio del suo tempo, delle scelte difficili e delle mediazioni di quegli anni. Esponente dell’area migliorista che ha sempre condotto dall’interno, forse con eccessi di attendismo, la propria battaglia nel partito comunista. Emanuele Macaluso, che da lì viene, avverte: «Ora il sindacato non ha più riferimenti politici, non c’è un partito che rappresenti gli interessi dei lavoratori». Deve navigare in mare aperto. «Guardiamo avanti», dice Susanna Camusso.
Già, ma molti nodi non sono stati ancora sciolti. Oggi un dirigente sindacale se la sentirebbe di andare a parlare di sacrifici o di un fondo di solidarietà in un’assemblea? Matteo Bellegoni, uno dei più giovani dirigenti della Cgil (La Spezia), aveva due anni quando Lama lasciò la confederazione, dodici quando è morto, si appassiona a parlare di una così pesante eredità e assicura che se ci fossero interlocutori politici credibili e un vero progetto di sviluppo, sarebbe anche pronto a sfidare insulti e bulloni e che in un tale contesto i lavoratori capirebbero. Auguri.