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 2016  maggio 31 Martedì calendario

Domani Marilyn Monroe avrebbe compiuto novant’anni. Una mostra racconta la diva che non è sopravvissuta al proprio mito, morta giovane e infelice

In un necrologio scritto all’indomani della morte di Marilyn Monroe (il 5 agosto 1962), Dino Buzzati immaginava che, nella notte fatale, un genio trasportatore di anime entrasse nella stanza dell’attrice e, per dissuaderla dal morire, la conducesse nel futuro. Le mostrava la sua vita dieci anni dopo (mentre vinceva l’Oscar), ma poi Marilyn, anzi Marilina, chiedeva di vedere cosa c’era dopo, e inevitabilmente appariva il suo declino, e da ultima «la Marilina già vecchia, una graziosissima vecchietta che era nel suo genere un amore, ma negli occhi era facile leggere una squallida e arida solitudine, nonostante le meraviglie e gli onori che la contornavano». E infine, decideva di non vivere.
Domani Marilyn avrebbe compiuto novant’anni, ed è difficile, al di là della fiaba di Buzzati, immaginare cosa sarebbe stata nei decenni. La sua forza è stata proprio quella di essere in bilico tra due diverse epoche del divismo: dopo il suo momento classico (gli anni 30 di Greta Garbo e Marlene Dietrich) e prima di quello problematico, adulto, della New Hollywood anni 70 degli anti-divi. Era un simbolo troppo indietro e troppo avanti, per certi versi, così come il suo modello di femminilità. In apparenza rassicurante, da “oca bionda” negli Usa di Eisenhower, ma insieme sotto il segno dell’eccesso, del travestimento, della recita di se stessa. E a riguardarli i suoi ruoli sono spesso complessi: la donna di frontiera di La magnifica preda,la cantante di night in fuga di Fermata d’autobus, la “cacciatrice di mariti” di Come sposare un milionario; fino al ruolo più adulto, quello negliSpostati di John Huston. Ma va forse
rivista in questa direzione anche la celebre Sugar Kane di A qualcuno piace caldo, film-simbolo di questa diva arrivata troppo tardi e troppo presto: una commedia in costume anni 30, che però gioca con quel che si chiama oggi gender, tanto da apparirci proiettato negli anni della liberazione sessuale. Secondo Edgar Morin la morte di Marilyn Monroe, «eroina della nuova femminilità», è «il rintocco funebre dello star system».
Marilyn non avrebbe accentuato i tratti pop e camp della propria immagine, come accadde invece a molti sex symbol di generazioni precedenti: da Mae West vamp nel Caso Myra Breckinridge alla nostra Francesca Bertini,
ottantaquattrenne suora in Novecento di Bertolucci, a Marlene Dietrich, nobildonna in Gigolò accanto a David Bowie. Magari Marilyn sarebbe stata in grado, più di altre attrici della sua generazione, di essere al passo con l’epoca dei Coppola e degli Spielberg, dei DeNiro e delle Meryl Streep. Ma in fondo, sono discorsi oziosi. Perché la tragica e prematura morte di Marilyn è elemento decisivo del suo mito. Una frase di Hugo von Hofmannsthal recita: «Un uomo che muore a trentacinque anni è, in ogni momento della sua vita, un uomo che morirà a trentacinque anni». Per Marilyn, che morì a 36 anni, è così. In ogni film, la Monroe che vediamo è la diva morta giovane e infelice - con tutto il pathos, e la retorica, che questo comporta. La sua immagine è icona e feticcio: riprodotta in serie da Warhol, oggetto di indagini morbose, di ostensione di memorabilia. Addirittura personaggio da fantascienza, nei romanzi di James Ballard o del nostro Tommaso Pincio, che nel libro Lo spazio sfinito la sdoppia immaginando un mondo parallelo in cui, negli anni 50, trionfa una diva di nome Norma Jeane Baker (vero nome dell’attrice), mentre una donna di nome Marilyn Monroe è una commessa in libreria. E forse in quel caso sì, possiamo immaginare che la diva, tornata umana, sopravviva al proprio mito e al proprio destino.