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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Design e innovazione, così l’America cambia modo di bere

In Olanda e in Irlanda molti passanti si sono fermati incuriositi davanti ai chioschi mobili montati su tricicli dall’«Economist»: l’offerta di un abbonamento speciale al settimanale più autorevole del mondo presentata al potenziale lettore mentre sorseggia un caffè ancora più speciale, il kopi luwak. Una bevanda prodotta con chicchi di caffè inghiottiti e defecati semidigeriti da un animaletto indonesiano, lo zibetto asiatico. Volti sorpresi, schifati o incuriositi dei passanti mentre sentono la spiegazione dei ragazzi dell’agenzia di comunicazione che cura la campagna. Eppure questa forma di marketing ha funzionato, così come ha funzionato offrire in manifestazioni promozionali in Gran Bretagna gelati disseminati di insetti che, secondo gli scienziati, sono destinati a diventare prima o poi parte della nostra dieta.
L’«Economist» cercava nuovi lettori tra persone curiose, assetate di esperienze innovative. E, con queste tecniche apparentemente repellenti, ha centrato il suo obiettivo (il kopi luwak è un caffè ricercatissimo e molto costoso, anche mille dollari al chilo: digerendo il chicco lo zibetto distrugge solo la corteccia). Forme estreme del cosiddetto marketing esperienziale, certo: la tecnica individuata 15 anni fa dal guru e superconsulente aziendale Don Tapscott come lo strumento più efficace per imporre i propri prodotti in un mercato sempre più saturo e distratto. Ma negli Stati Uniti sono ormai moltissimi, soprattutto nei settori sovraffollati, a cercare di imporsi all’attenzione dei consumatori offrendo un’esperienza più che un prodotto di gran qualità. Una rivoluzione del marketing che si estende anche al design che, da pura configurazione estetica di un prodotto, diventa processo mentale che condiziona tutte le fasi di sviluppo.
Si tratta di una rivoluzione evidente soprattutto nel mondo dell’«America da bere» con i produttori di birra e liquori che cercano di rinnovare la loro immagine mentre i giganti delle bevande gassate e zuccherate, da anni sul banco degli accusati (insieme ai fast food) per le epidemie di obesità e diabete negli Usa, cercano di cambiare rotta. La Budweiser (la birra più popolare del Paese, ma l’azienda che la produce è stata acquistata dal gigante belga InBev) ha appena deciso di cancellare per tutta l’estate il suo marchio da lattine e bottiglie sostituendolo semplicemente con la parola America. Un’esperienza patriottica e un modo di ricordare ai bevitori che la birra è molto più americana del vino, facendo al tempo stesso riscoprire il prodotto di largo consumo a un mercato sempre più affascinato dai malti artigianali realizzati da migliaia di microbrewery in ogni angolo del Paese. «Ed è il momento giusto per farlo – dice a “la Lettura” il vicepresidente di Budweiser, Ricardo Marques – visto che questa sarà probabilmente l’estate più americana della nostra generazione» tra campagna per le presidenziali, Coppa America di calcio disputata negli Usa e Stati Uniti che cercheranno di primeggiare all’Olimpiade in Brasile. Pazienza se Donald Trump, che in materia di marketing la sa assai lunga e non manca di faccia tosta, è saltato a bordo senza nemmeno pagare il biglietto: «Sanno che con la mia rivoluzione politica rilancerò l’America e hanno deciso di approfittarne, giocando d’anticipo».
Per rilanciare la sua vodka «Grey Goose» la Bacardi, azienda di origine cubana poi trasferita alle Bahamas ma sostanzialmente americana, ha creato «Boulangerie Bleue», una rete di bar mobili che diventano anche pasticceria o beach club, strategicamente collocati nelle spiagge e nei luoghi degli eventi più trendy : da Ibiza e Marbella al litorale degli Hamptons a Long Island, al festival del cinema di Cannes, agli US Open di tennis. Ovunque cocktail innovativi basati sul «Grey Goose» serviti insieme a piatti leggeri scelti dagli chef di Slow Food. E poi uno spot televisivo che propone un avventuroso viaggio indietro nel tempo, con la scoperta di un dirigibile abbandonato in un campo di grano sul quale si salta per una trasvolata fantastica, con la cabina passeggeri che di notte diventa un «cinema paradiso» nel quale si vedono vecchi film sorseggiando cocktail ghiacciati.
Anche i giganti mondiali delle bevande, Coca-Cola e Pepsi, si sono posti il problema di cambiare rotta per ringiovanire la loro immagine e compensare la perdita di fatturato dovuta alla contrazione dei consumi di bevande gassate e zuccherate. Ma mentre la Coca-Cola, più tradizionalista, si è limitata a incrementare gli sforzi commerciali nell’area dell’acqua minerale Dasani e a un’operazione di rebranding per collocare sotto uno stesso logo, con poche differenze, i quattro prodotti che fin qui hanno avuto aspetti molto diversi (Coca-Cola Classica, Zero, Light e Life), la Pepsi ha imboccato la strada di un cambiamento più radicale. Tutto nasce da Indra Nooyi, la manager indiana sessantenne che da dieci anni è alla guida del gruppo. «Mi resi conto, più da madre che da manager – ha raccontato la stessa Indra – che era necessario ripensare il nostro modo di fare innovazione e di disegnare esperienze attraenti per i consumatori. Per stimolare i miei collaboratori diedi a ognuno un album da riempire di immagini e una macchina fotografica chiedendo loro di portarmi buone idee di design. Alcuni tornarono con foto fatte qua e là dalle mogli, altri vennero con l’album vuoto. A quel punto capii che serviva uno specialista. Portai in azienda Mauro Porcini», il primo chief design officer nella storia della Pepsi.
In tre anni il team di questo manager quarantenne di Varese che aveva già avuto successo come designer del gruppo chimico 3M, ha ridisegnato molti prodotti del gruppo (sono della Pepsi anche i succhi e gli smoothie Naked e Tropicana, le bevande per sportivi della linea Gatorade, i tè Lipton, patatine e snack Lays e Doritos e molto altro ancora), le macchine di distribuzione e i locali usati dalla rete di venditori. Ora la mossa più audace con un’incursione nella ristorazione: la Kola House che verrà inaugurata tra qualche settimana nel Meatpacking District, il cuore della Manhattan più innovativa, tra la sede newyorchese di Google e il Chelsea Market. «Un luogo – spiega Porcini a “la Lettura” – dove valorizzare, anche per altre preparazioni gastronomiche, la noce di cola che, molti lo hanno dimenticato, è l’elemento naturale alla base della Pepsi. Ma anche dove sperimentare col pubblico i cocktail analcolici innovativi di Alex Ott, il nostro geniale mixologist tedesco: un vero alchimista che ha creato bevande anche per gli astronauti della Nasa. E dove organizzare eventi musicali insieme al nostro partner, Live Nation».
Gli analisti finanziari come quelli di Fitch osservano con qualche perplessità: la via di un avvicinamento ai clienti attraverso la ristorazione è stata già tentata da altri – i gelati Häagen-Dazs, la yogurteria di Chobani e l’M&M World del gigante della cioccolata Mars, non sempre con risultati positivi. «Il rischio – sostiene l’analista Dominique Bonnafoux – è che il tentativo di Pepsi di conquistare la generazione dei Millennials con un ringiovanimento forzato produca un risultato imbarazzante, come il classico papà che si presenta alla festa dei figli liceali».
Problemi ce ne sono sempre, riconosce Porcini, ma Pepsi si muove a ragion veduta per sperimentare, raccogliere impressioni, creare nuove tendenze da diffondere anche attraverso le reti sociali.
L’altra grande innovazione è nel design che, con l’introduzione del design thinking, diventa un modo nuovo di studiare bisogni e sogni dei clienti, di approntare le strategie commerciali e di realizzare prototipi sui quali far lavorare, insieme, tutte le squadre di specialisti aziendali.
Ognuno cerca la sua strada, ognuno ha problemi diversi: Coca-Cola, coi suoi 124 anni di vita, è forte di quasi due miliardi di consumatori nel mondo, ma dipende dalle soft drink per più del 70 per cento del fatturato, mentre le soda, le bevande dolci gassate, pesano per meno di un quarto sulle vendite Pepsi.
Altre multinazionali del food puntano sulle possibilità offerte dai big data e dalla medicina personalizzata. Come Nestlé, la più grande (forte anche nelle bevande, dalla San Pellegrino a Nesquik) con sede in Svizzera e 436 stabilimenti in 85 Paesi del mondo nei quali lavorano 335 mila dipendenti. Per crescere Nestlé punta su nuove famiglie di prodotti a cavallo tra alimentare e farmaceutico: cibi utili per combattere varie patologie. Soprattutto quelle degli anziani, dalla perdita della memoria al diabete. Ma anche le sindromi da deficit di attenzione dei più giovani. Alimenti in alcuni casi ad alto contenuto farmacologico che vanno autorizzati dagli enti sanitari di controllo e per i quali, a volte, serve anche la ricetta.
I giganti Usa delle bevande cominciano, poi, a usare anche le informazioni dei singoli utenti per creare prodotti personalizzati come nel caso della linea GX di Gatorade che consente a ogni atleta, sulla base dei suoi parametri fisici, di preparare in piena autonomia il drink migliore per le sue esigenze. Bevande fatte all’istante che si diffonderanno sempre più, anche al di là di queste sofisticate personalizzazioni, per l’evoluzione dei gusti e i vincoli ambientali: il modello è il sistema Drinkfinity sperimentato da Pepsi in Brasile. Una bottiglia da riempire d’acqua raccolta localmente per ridurre lo spostamento di liquidi voluminosi e pesanti, sulla quale si avvita una capsula rotonda contenente polveri ed essenze per la composizione di diversi tipi di bevande. Centinaia di mix diversi per intercettare il gusto di sperimentare dei consumatori.