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 2016  maggio 29 Domenica calendario

«Ma gli androidi sognano pecore elettriche?». Carrère, Dick e l’irrealtà che pervade le nostre vite


«Mi dirai la verità, vero? Se sono un androide me lo dirai?». Chi non ricorda Blade Runner, o, meglio, il romanzo da cui il film fu tratto, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Al suo autore, Philip K. Dick (1928-1982), Emmanuel Carrère nel 1993 dedicò una biografia, uscita in Italia nel 1995 per le edizioni Theoria, e ora ritradotta per Adelphi da Federica e Lorenza Di Lella (pagg. 352, € 19). Io sono vivo, voi siete morti, il titolo del libro, è la scritta che il personaggio Glen Runciter, in Ubik (1969) – il romanzo con cui Dick pensava di aver scritto uno dei cinque libri più importanti della storia, al pari della Bibbia, di quelli cui gli uomini devono affidarsi per conoscere il segreto della loro condizione – scrive nei bagni per comunicare ai suoi dipendenti «smarriti nel labirinto della semivita» ciò che è loro successo. «Attraverso dépliant pubblicitari, slogan tracciati nel cielo dagli aerei, messaggi in codice occultati nel disegno dei pacchetti di sigarette, trasmetteva al gruppo le istruzioni per sopravvivere. Appariva anche in televisione, dove pubblicizzava la bomboletta spray Ubik, l’unica arma efficace contro l’entropia».
La condizione umana per Dick è intrisa del senso di irrealtà che pervade le nostre vite – un dubbio ben noto ai filosofi almeno da quando Cartesio immaginò che un Genio Maligno potrebbe ingannarci sistematicamente facendoci credere di vivere nella realtà mentre invece stiamo solo sognando – nel momento in cui percepiamo l’impossibilità di trovare un criterio certo e coerente per credere che ciò che ci circonda è effettivamente reale e non frutto di un’allucinazione, magari provocata dall’Lsd, una droga assai di moda ai tempi di Dick. Il quale, in Ubik, porta questa incertezza al parossismo, esasperando una forma di rovesciamento adottata anche in altri suoi romanzi: il potente magnate Runciter in realtà era stato vittima di un attentato e il protagonista del romanzo, Joe Chips, gli era sopravvissuto. Runciter, da uno stato temporaneo di semivita, piano piano incrina questa realtà finché è Child a trovarsi in quello stato, mentre Runciter si immerge nel suo universo immaginario per salvarlo dalla completa disgregazione della sua identità.
Ma torniamo agli androidi e ai blade runners che ne vanno a caccia. In un capitolo intitolato «Definire l’umano» Carrère descrive assai bene il procedimento di Dick. Da un lato si ispira al famoso test di Turing, ma dall’altro, nel congegnare le prove atte a distinguere gli umani dai loro surrogati, aggiunge un elemento che era estraneo al fondatore dell’intelligenza artificiale (e che, certo, per ragioni logiche, non avrebbe approvato): «l’empatia, quella che san Paolo chiamava carità» – scrive Carrère introducendo un tema che riprenderà ne Il Regno, dove ripercorre i tempi in cui scriveva questo libro su Dick – «Caritas, diceva Dick con il solito tono saccente. Agape. Il rispetto della regola d’oro: “ama il prossimo tuo come te stesso”».
Questo aspetto umano troppo umano, lungi dal semplificare le cose, le complica terribilmente, soprattutto da quando «il blade runner, per ragioni più erotiche che evangeliche o turinghiane, inizia a provare empatia per le sue prede», di una in particolare. «È strano trovare nelle pagine di uno scrittore di fantascienza, peraltro dallo stile piuttosto sciatto, brani memorabili, che non solo fanno venire i brividi, ma che ci danno anche la sensazione di aver intuito qualcosa di essenziale, di basilare. Di aver intravisto un abisso che è parte integrante del nostro essere e che nessuno aveva mai sondato prima. Uno di questi brani è contenuto in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? ed è quello in cui viene descritto il grido d’orrore di chi scopre di essere un androide. Un orrore assoluto, irrimediabile e inconsolabile». Eppure tutto era cominciato da quella piccola supplica, prima del test: «Me lo dirai se sono un androide?»