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 2016  maggio 29 Domenica calendario

A Romford vinceranno i brexiters

«Ma per l’amore di Dio cosa dice...? Ma certo che avrebbe sostenuto Brexit». Sue Connelly, 68 anni, lancia lo sguardo languido verso l’altare che ha allestito sull’uscio di Margaret Thatcher House, Western Road, Romford, ultimo avamposto dell’East End di Londra, al confine geografico e sociale con l’Essex. Terre popolate dalla versione locale della casalinga di Voghera. Terre di ceto medio, quindi, emancipate dai ranghi working class degli Eastenders, quelli con l’accento cockney e il vessillo del West Ham Football Club a incrociare l’Union Jack.
L’occhio di Sue, che di quel mondo è figlia, fissa l’altare dedicato alla signora premier di Gran Bretagna, affollato di immaginette e bandierine attorno a un foglio che riporta la parola “Patriot”.
«Patriota è colui che sostiene l’interesse del proprio Paese, come Margaret Thatcher non come quel traditore di David Cameron» dice, sbarazzando il campo da ogni equivoco. Sue coordina l’associazione del partito Conservatore di Romford, il primo consiglio comunale del Regno Unito che ha votato a favore di Brexit sulle ali di una Grosse Koalition fatta di euroscettici Tory, eurofobi dell’Ukip, estesa fino ai brexiters che militano nel locale Labour Party.
Questo paesone che lambisce Londra e sfiora l’Essex conta, infatti, la più alta densità di antieuropeisti nel Regno Unito: l’addio all’Ue promette, qui, di sfiorare l’ 80 per cento dei voti. «Di più, di più», sussurra Sue mentre imbusta le lettere indirizzate personalmente a ogni singolo cittadino e firmate dal deputato locale, Andrew Rossindale, member of parliament Tory e brexiter d’antan. Margaret Thatcher House è da mesi il punto focale della campagna referendaria per il “no”, più sorprendentemente è anche telefono azzurro di chi si lamenta per «l’invasione di immigrati».
Il cellulare trilla e Sue risponde. «Ma che accento hanno ? Come si chiamano ? Vieni pure qui ne parliamo con Andrew». Chiude la conversazione e spiega. «Un’anziana disperata per i disagi che provocano vicini stranieri. Almeno due casi alla settimana sono portati alla nostra attenzione spesso sono gli stessi immigrati che chiedono aiuto per potersi integrare. La realtà è che scuole, sanità, case popolari non reggono a questi numeri».
Quelli ufficiali li ha appena dati l’ufficio di statistica del Regno Unito che fissa l’immigrazione, intra ed extra Ue, verso primati senza precedenti: 330mila gli arrivi nel 2015, al netto delle partenze, metà dei quali dall’Europa, per lo più orientale. Tre volte oltre il tetto di 100mila indicato da David Cameron. La spinta è violenta, ma Londra se l’è autoinflitta, almeno in parte, rinunciando alla moratoria sul diritto di residenza dei nuovi partners Ue. Il governo Blair scelse di non applicare misure – ponte, a differenza di quanto fecero altre capitali dell’Unione, e Londra divenne calamita naturale dei movimenti dall’Est Europa. La gestione non omogenea dei flussi ha fatto il resto. Aree della Grande Londra come Newham, al centro dell’inchiesta della Bbc «Gli ultimi bianchi dell’East End», hanno perso – sostiene il reportage – il 40% della popolazione inglese negli ultimi 15 anni per la pressione dell’immigrazione da Medio ed Estremo Oriente.
«Anche in South Street (il viale del passeggio di Romford, ndr) non si sente più parlare inglese», chiosa John Reid, militante laburista che ha sposato la causa Brexit, impegnato con Sue a mobilitare Romford. «Le differenze ideologiche non contano – si schermisce se gli si contesta l’eccentricità della sua scelta essendo il Labour assai meno diviso del Tory Party sul destino europeo di Londra – la cosa più importante è recuperare sovranità». Rotolano la battute sulla «dittatura di Bruxelles», echeggiano esemplificazioni sul benefico effetto dalla liberazione del giogo europeo, si vagheggia di «short term pain and long term gain», soffrire un poco oggi per incassare molto domani.
Sue e John continuano a imbustare mentre andiamo in South Street a misurarci con la babele di idiomi che toglie il sonno al militante Labour. La lingua dominante è, ovviamente, l’inglese anche se non è più la sola che si sente parlare, anche se i passanti con il volto più scuro superano i visi pallidi in una trasformazione sociale ed etnica che esiste e che scuote a fondo gli equilibri delle comunità più esposte. Trasformazione che è figlia della globalizzazione assai prima che dell’adesione alla Ue. Una verità che non convince affatto Pat e John, settantenni, elettori dell’United Kingdom Independence Party. Li incontriamo davanti al Golden Lion Pub dove l’Ukip fa campagna. Raccolgono badge e manifesti del fronte Leave. «L’immigrazione è un problema enorme, ma la questione centrale è che non siamo più padroni nel nostro Paese, decidono tutto burocrati non eletti. Lo sa che vogliono eliminare la bandiera, l’inno nazionale, i confini?». E se gli dici che non è vero, affondano in uno sghignazzo complice ogni considerazione non allineata al pensiero unico dell’antieuropeista.
“Verità” scolpite dalla campagna della stampa popolare britannica. I tabloid hanno responsabilità enorme nella sistematica mistificazione di una realtà difficile, enfatizzata dall’euroscetticismo militante e gettata in pasto all’elettorato meno avvertito. I più, non solo in Gran Bretagna.
A Romford vinceranno i brexiters e si dirà che hanno vinto perché è abitato da anziani, inclini alla conservazione, riluttanti al cambiamento. I brexiters, qui, vinceranno, ma non solo per l’anagrafe. L’immigrazione scomposta è un problema reale. La risposta non potrà passare per semplicistiche esemplificazioni se non si vuole lasciar spazio alla creatività artificiale della Grosse Koalition sbocciata in questo micromondo, sotto lo sguardo, crediamo p erplesso, di Margaret Thatcher.