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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Alberto Cairo, il fisioterapista di Ceva che restituisce gambe e braccia ai mutilati di Kabul per far tornare gli aquiloni a volare

«Ho paura? Direi di no. Certo, se sei in strada quando sparano, è diverso. Non sono un eroe, ma la Croce Rossa è rispettata e penso di essere protetto dal lavoro che faccio. Chiamiamolo destino o Provvidenza». Alberto Cairo è sereno, anche quando racconta di un Paese in piena violenza. Una terra che è diventata la sua da 25 anni: l’Afghanistan.
L’hanno ribattezzato l’«angelo di Kabul», ma il fisioterapista di Ceva (nel Cuneese) replica: «Faccio solo il mio dovere». Lui che, grazie alle protesi, ha restituito gambe, braccia e una vita dignitosa a migliaia di feriti di guerra e disabili.
Alberto ha compiuto 64 anni il 17 maggio. Papà Carlo, tanto orgoglioso di quel «ragazzo coraggioso e testardo», è morto alcuni mesi fa; mamma Anita non c’è più da tempo. I due fratelli, Domenico e Valentina, abitano a Ceva e lui, quando possibile (com’è accaduto domenica), torna a trovarli. Blitz di poche ore, poi tappe per vari impegni in Italia, summit a Ginevra e rientro in Asia. Lì c’è bisogno della sua forza. Quasi inaspettata in un fisico così minuto.

Per Cairo tutto cambia a trent’anni. Dopo la maturità classica, studia e lavora come telefonista alla Sip, per laurearsi in Giurisprudenza. Ma la sua strada è un’altra: si diploma in Fisioterapia. E parte per il Sudan. Nel ’90 va in Afghanistan per il Comitato internazionale della Croce Rossa: sono i tempi della ritirata sovietica, il Paese è devastato. Nella capitale Alberto gestisce il primo centro di riabilitazione per i mutilati di guerra. «Ora le strutture della Croce Rossa di Ginevra di cui mi occupo sono sette – racconta – e ne sosteniamo altre otto, di piccole organizzazioni, rifornendole di materiali». Quasi centomila i pazienti aiutati finora: «Ho insistito molto perché ogni anno, oltre ai feriti di guerra e dalle mine, potessimo curare bimbi con poliomielite o vittime di qualsiasi handicap motorio. Che sono 9 mila. Ce l’ho fatta».
Nella terra «dove gli aquiloni non potevano più volare», Alberto inizia realizzando protesi con materiale di recupero. A basso costo. «Piccoli miracoli» che restituiscono dignità anche ai poveri. «Oggi – spiega – la tecnologia è avanzata e provvede Ginevra: ci manda le protesi, che sperimentiamo».
Ma non basta: «Ho sempre pensato che, oltre alla riabilitazione fisica, ci voglia quella sociale. Così abbiamo creato laboratori, corsi professionali e un sistema di micro-prestiti. Assumendo ex pazienti nei centri». E ancora: «Ora puntiamo alla riabilitazione sportiva. Anzi, sono arrabbiato con me stesso per non averlo scoperto prima. Lo sport è un diritto, mentre si pensa che per gli afghani sia un lusso. Siamo partiti con la pallavolo, ma non è adatta ai disabili gravi. Allora basket in carrozzina. Abbiamo formato 4 squadre di ragazze e 8 di ragazzi, con esiti oltre le aspettative, fino alle qualifiche per le Paralimpiadi. Ora iniziamo ad allenarci per la tournée in Iran e Turchia».
Nel 2010, Cairo è stato candidato al Nobel per la Pace. Una pace che laggiù è lontana. «C’è molta incertezza politica – dice -. Fuori delle città il 30% del territorio è dell’opposizione armata. E i giovani fuggono». Un Afghanistan di nuovo dimenticato? «In parte sì. Le piccole organizzazioni sono andate via per motivi di sicurezza e mancanza di fondi. Gli stranieri hanno fatto piani non sempre giusti. La guerra? Si vedono cose crudeli».
Com’è una giornata a Kabul? «Mi alzo e rincaso alla stessa ora. In mezzo, tanto lavoro». Una volta ha scritto: «Quando vedo uno senza gambe arrivare da noi, ho imparato a non pensare “Poveretto”, ma a calcolare rapidamente i giorni che ci vorranno per rimetterlo in piedi».