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 2016  maggio 29 Domenica calendario

«In Francia sono un autore. In Gran Bretagna, un cineasta. In Italia, un maestro dell’horror. Negli Stati Uniti, un fallito». Parola di John Carpenter

«In Francia sono un autore. In Gran Bretagna, un cineasta. In Italia, un maestro dell’horror. Negli Stati Uniti, un fallito». E forse adesso, persino un musicista. «Un azzardo a cui mi ha convinto il successo inatteso l’anno scorso dell’album Lost Themes». Tanto da fare un nuovo album, Lost Themes II, per l’etichetta di culto Sacred Bones che pubblica le opere di altre registi amanti della musica come David Lynch e Jim Jarmusch e un vero e proprio tour che arriverà anche in Italia (a Torino il 26 agosto e a Roma il 28). «Non è così sorprendente» spiega l’autore «con un paio d’eccezioni ho sempre composto le colonne sonore dei miei film da Fog a 1997: Fuga da New York, dal Seme della follia Vampiri.
Perché l’ho fatto? Semplice: sono più veloce di un compositore, più economico e... vado d’accordo con il regista». Sempre sintetico, John Carpenter taglia corto anche sulla sua carriera cinematografica. In poco più di quarant’anni, una ventina di film, quasi tutti, alla prima uscita in sala, snobbati dalla critica o dal pubblico, poi regolarmente rivalutati e mitizzati nel tam tam degli internauti, nelle ridiffusioni tv in Usa (dove nel ’79 Carpenter ha battuto Via col vento) e nelle riedizioni in dvd, tipo il reverente cofanetto Blu-ray con Halloween e gli infiniti sequel che l’autore s’era solo degnato di co-sceneggiare: «È stato un modo per vivere di rendita con i diritti: a ogni sequel, un bel gruzzolo», sorride il regista, sessantotto anni, felpa grigia tirata al gomito, il pagliaio di capelli ormai candidi raccolti a codino sotto l’immancabile berretto a visiera dei cineasti Usa in trasferta, i lunghi baffi a ‘U’ che spiovono sul volto affilato. «Per me è stata la seccatura, ogni volta, di un paio di notti di lavoro. Mi davo la spinta con boccali di birra: molto creativa la Budweiser, se ben ricordo. Fa spumeggiare le idee, evitandoti la sbornia».
Negli Usa sarà pure un fallito, mister Carpenter, ma da bravo autore- cineasta-maestro detiene, proprio a Hollywood, un record storico, il più grande successo al botteghino d’un film indipendente: «È vero, Halloween era costato, nel ’78, trecento dollari, incassandone quarantasette milioni in Usa e settanta nel resto del mondo». È anche diventato il giro di boa di innumerevoli”copie”, come Venerdì 13, e omaggi, dal Freddy Krueger al primo Scream di Wes Craven: «Wes, un grande, era spiritoso, abilissimo stratega dell’horror di cui si è divertito negli
ultimi titoli a rivelare le “ricette”, terrorizzandone al tempo stesso gli apprendisti». Scream è tutto un rimando al suo cinema: «Sì, le “istruzioni per sopravvivere in un horror” sono ricavate da Halloween, che la prima vittima indica come film preferito. E per i cultori del genere è inevitabile la risata quando una ragazza confida che la storia che stanno vivendo le ricorda un film di “Wes Carpenter”…». Un pastiche nome-cognome reso più comico, in Europa, dalla assimilazione popolare del suo cinema al clan delle “tre C” del terrore: Craven, Carpenter, Cronenberg. Mentre negli Stati Uniti lei è stato periodicamente espunto dalla “horror trinità”: «Questione di soldi. Hollywood mi ha messo da parte ogni volta che mi ha giudicato incapace di girare film per il grande pubblico, cioè dagli incassi paperonici». Una soddisfazione postuma, ma da vivo, se l’è tolta con il proliferare planetario di fans’club e la continua rigenerazione del suo cinema nei remake, dal nuovo Fog di Wainwright, prodotto nel 2005 dallo stesso Carpenter, ai due ritorni di Halloween, firmati Rob Zombie, nel 2007 e 2009, fino a un immaginoso prequel, nel 2011, di La cosa. Senza contare le parodie, altra prova di popolarità: Christine in Scary Scream Movie, Il villaggio dei dannati nell’episodio Sbartacus dei Simpson undicesima stagione e l’eterno Halloween strapazzato in almeno quattrocento ammicchi tra cinema e tv: «È quella che con qualche autoderisione ho battezzato “John’s Revenge” (“Carpenter: la vendetta”): all’epoca non vi andavo giù, adesso non potete più fare a meno di me. Di questa sfasatura tra ieri e oggi non ho mai capito il perché: se non in un caso». Quale? «La cosa. Per la prima volta disponevo di un budget vicino agli standard hollywoodiani: quindici milioni di dollari. Mi ero permesso il lusso, da appassionato di western e dunque di Sergio Leone, di chiedere le musiche a Ennio Morricone – molto prima di Tarantino !... – anziché ricorrere al mio consueto bricolage al sintetizzatore. Ma il film, uscito nell’82, fu accolto malissimo: troppo terrificante, troppo pessimista. Tutta colpa di Spielberg». In che senso? «Negli stessi giorni era uscito E. T., altro film su vite extraterrestri, ma accattivante, positivo. Confronto micidiale, rispecchiato dal box-office: Spielberg al primo posto, io al quarantaduesimo con incassi appena di rattoppo. Per me fu uno scacco davvero bruciante, ero convinto d’avere sfornato il mio film migliore» (oggi, puntualmente, venerato come suo capolavoro). Ma Carpenter reagì subito mettendo a segno il sognante Starman, con Jeff Bridges messia dello Spazio: «È il mio titolo più hollywoodiano, una specie di E. T. adulto. L’avevo girato per porgere le scuse agli Studios. Starman è stato un mea culpa, come per dire: vedete, sono capace anch’io di confezionare un film gentile e romantico».
Non è stata l’unica deviazione dalla horror-ortodossia, dove brilla una perla musicale, Elvis, sul re del rock’n’roll. Perché un film su Presley e solo su Presley? «Perché era “the King” e ha continuato a esserlo dopo la morte. Aveva un carisma speciale, una voce unica. Ha saputo rimettere insieme rhythm’n’blues, blues, gospel e country. Dopo quel telefilm del ‘79 mi hanno chiesto un’altra biografia musicale, questa volta sui Beatles, ma ho rifiutato. Non perché non li ami, ma la loro storia – almeno quella collettiva – non è così appassionante come l’avventura umana di Elvis». La musica quindi è un punto di forza del cinema di Carpenter, cruciale puntello del terrore: «È l’espressione artistica più diretta. Quando le singole parti di un film sono montate, la musica è l’intonaco di emozione pura che le salda insieme. È stato mio padre a iniziarmi: era un violinista classico, ma partecipava anche a sessioni rock e country a Nashville. Sono cresciuto avvolto da ogni genere di musica. E fin da piccolo ho cominciato a suonare: violino, pianoforte, ma soprattutto basso. Pensi che il successo di
Halloween pare sia dovuto al tema musicale: un hit, poi imitatissimo, che più semplice non si può, basato su una ritmica 5/4 (cinque tempi in una misura) che mio padre mi aveva insegnato al pianoforte da bambino. L’ho eseguito di nuovo, combinando svariati effetti sonori. Perché ancora oggi non so scrivere una sola nota. In una canzone dei titoli di coda in Grosso guaio a Chinatown, oso anche cantare. Trent’anni fa, un po’ per scherzo, ho inciso il mio primo album, Waiting Out The Eighties.
Più seriamente ho invece composto la musica di un videogame del ’98, Sentinel Returns. Adoro i videogame: ci gioco di tanto in tanto con mio figlio, John Cody. Ne ho anche sceneggiato uno, Fear 3. E ho anche lavorato, con altri, all’album Electronica 1 di Jean Michel Jarre uscito qualche mese fa: lavorato alla mia maniera, un Logic Pro che ho tormentato per un weekend». Ora viaggia sulle note la “John’s Revenge”? «Perché no? Se per gli Usa sono diventato uno zombie del cinema, chissà che alla musica non debba la mia resurrezione».
Ma il cinema allora? Una pietra sopra ? Nell’88 aveva fatto Essi vivono, una sorta di metafora in chiave horror dell’era Reagan. Oggi Donald Trump non è abbastanza horror da meritare un suo film ? «È più che horror: è un grave, reale pericolo. L’horror vero però è la folla che gli fa ala e lo acclama. Com’è successo, con altri, anche da voi in Italia, in Europa. Essi vivono per me era un documentario: la realtà a volte sa essere più spaventosa degli horror».