Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 29 Domenica calendario

La nuova vita dei rifugi dei partigiani

I veri partigiani salirono quassù senza avere mai visto un fucile, l’unico un po’ pratico d’armi era il maestro Rapisarda, professore di clarinetto. I primi, veri partigiani all’inizio erano avvocati, studenti, commercianti, contadini, eppure proprio qui fecero cominciare la Resistenza, la libertà strappata ai lupi e tutto il futuro che abbiamo noi adesso, e i nostri figli e i loro, nel tempo che verrà. Era il 12 settembre 1943: tra le baite dei pastori nasceva Giustizia e Libertà. Chissà cosa direbbero Nuto, Duccio e Dante se vedessero la terrazza del ristorante, le stanze del rifugio, la biblioteca e il museo cresciuti sopra i sassi delle loro battaglie. «Mio padre direbbe una sola cosa: seve mat, siete matti». Il professor Marco Revelli, 69 anni, è un gentiluomo d’altri tempi, oltre che lo storico famoso e il teorico radicale del conflitto tra capitale e lavoro. È anche il figlio di Nuto, l’uomo che girava le valli del Piemonte più povero col magnetofono e faceva parlare i vinti, i miserabili delle campagne e dei borghi, le donne contadine che ressero da sole una società intera. Nel nome del padre, e dei padri della nostra sgangherata e tenacissima Repubblica, il professore ha creato la Fondazione Nuto Revelli, ha acquistato i ruderi di Paraloup e li ha recuperati. E adesso i ragazzi che appoggiano le mountain bike sulle pietre e ordinano un piatto di “tomini elettrici” sulla terrazza di legno affacciata alla valle, forse neanche immaginano che proprio qui i primi partigiani videro Boves bruciare. C’erano urla e sangue e morte. Poi, 50 anni di abbandono. Le baite crollate, i proprietari indifferenti o lontani, i loro eredi inconsapevoli o distratti. Finché il figlio di Nuto non ha deciso di riprendersi una parte della storia e farla tutta nuova.
«Si cominciò nel 2005, quando per la prima volta in vita mia venni a Paraloup, luogo solo immaginato, quasi un topos letterario». Paraloup vuol dire “difesa dai lupi”. «C’era con me un amico, il regista Teo De Luigi, che guardò i sassi e i muri diroccati e mi disse: vergognatevi». Allora il professore pensò di avere un dovere, «la restituzione di un debito». E cominciò a comprare pezzi di pietra e memoria. «Era difficilissimo, una pazzia, qui le proprietà sono frammentate all’inverosimile e in pochi volevano vendere, e poi la burocrazia, due anni di lotte con l’Enel solo per un cavo elettrico. Quando aprimmo il cantiere nel 2008, non avevamo neanche la luce». Intervennero le banche, si ottennero fondi europei e nel 2013 l’incredibile inaugurazione del ristorante del Rifugio Paraloup, un milione di euro tutto, 9 baite su 14 risistemate. Non un sacrario, però. «Non volevamo un museo statico e neppure una riserva indiana, anche perché c’erano da raccontare almeno due storie: la nascita della Resistenza e alcuni secoli di vita montanara. Così Paraloup è diventato un luogo doppio». Ai veri partigiani servivano due ore di cammino sulle mulattiere per salire in vetta, oggi bastano dieci minuti in automobile da Rittana, sei chilometri più in basso. Un cartello dice: “Centro di rieducazione equestre”, qui con i cavalli si aiutano i ragazzi disabili. Ci sono le indicazioni per i sentieri, il maneggio, i percorsi per le bici che s’arrampicano come camosci. Il professor Revelli fa strada. «Abbiamo la baita biblioteca, la baita museo, due baite rifugio, la baita cucina, la baita ristorante con terrazza e la baita dell’accoglienza, si fa turismo e si racconta la storia dove si è svolta. Almeno cento ragazzi delle scuole vengono ogni settimana ad ascoltarla, attentissimi. E chi sale soltanto per un piatto di tajarin non vale certo di meno: se non sa e se vuol sapere, saprà». Lo crede anche il sindaco di Rittana, lo storico Walter Cesana che ci accompagna: «Prima dei partigiani, prima di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco, qui vivevano 12 famiglie di pastori, un’ottantina di persone che si chiamavano tutte Goletto e non erano mica imparentate, il racconto della montagna è un bene prezioso».
Sono belle e strane queste baite salvate dal tempo: hanno una specie di involucro di sassi e un corpo centrale in castagno, come se il vecchio abbracciasse il nuovo, il frutto dentro il guscio. «Non volevamo che il restauro restituisse un luogo finto, una replica, per questo abbiamo scelto soluzioni tecniche particolari. Ci sono le parti “a rudere” esterne, ma con un’intelaiatura robustissima, e le coibentazioni col materiale della Nasa. Abbiamo wi-fi e banda larga, e insieme i sassi e i muri a secco». Non c’è la retorica che a volte, anche con le migliori intenzioni, si accompagna ai luoghi del passato e della guerra, eppure questo non sarà mai un posto qualunque. «Io penso che almeno la metà dei visitatori sappiano dove sono, e cosa accadde qui». Anche qualcun altro, dice il professore, farebbe meglio a saperlo: «Che assoluta tristezza quelle parole della ministra Boschi sui veri partigiani e su come votano, una cosa deprimente, a volte servirebbe un po’ di pudore». Sembrano solo baite nel prato, invece è uno dei luoghi fondativi della Repubblica. «Ogni tanto ci penso, ed è un pensiero che mi piace». Sara Gorgerino ha 34 anni e gestisce il rifugio da tre, insieme alla socia e amica Chiara Goletto. «Abbiamo scommesso su noi stesse e sulla montagna», dice Sara. «Qui succedono un sacco di cose, s’incrociano cibi e cultura con l’aiuto di Carlin Petrini, mostre fotografiche e passeggiate al chiaro di luna, rafting e cavalcate, letture e polentate. Non lo cambierei per niente al mondo, anche se non è la vita di Heidi e montagna vuol dire farsi il mazzo, spalare quattro metri di neve, sistemare i sentieri, lavorare senza guardare l’orologio. Ma quando a sera si fa silenzio, quando all’alba ci svegliamo col sole che sorge di là dal monte, beh, siamo proprio contenti». «Facciamo cose semplici e cerchiamo di farle bene», interviene Luca Galfrè, il cuoco. Ha 24 anni. «Sempre più giovani tornano a lavorare in montagna, io dico che la nostra generazione la salverà». Tra le baite si apre la “quintana”, uno spazio naturale dove il professor Revelli pensa di mettere un giorno un palcoscenico. «È un posto perfetto per letture e spettacoli». I libri, sempre. «Quelli di mio padre si vendono ancora tanto, vengono ristampati regolarmente e tra un paio d’anni tutte le interviste del Mondo dei Vinti e dell’Anello forte, già recuperate e digitalizzate, saranno in rete. Non ci fermiamo, vorremmo portare a Paraloup una sezione della Scuola del ritorno, serve a formare i nuovi montanari dando assistenza a chi vuol tornare a vivere qui. E poi occorre creare un’associazione fondiaria sul modello francese, perché si superi l’ostacolo della frammentazione delle proprietà che blocca lo sviluppo». Durò venti mesi l’avventura partigiana di Paraloup, e i lupi non riuscirono a prevalere. Il luogo fu difeso fino all’ultima baita, dove adesso un tappeto di fiorellini celesti ha preso il posto delle mitragliatrici e della gramigna. Sono piccoli, delicatissimi anche nel nome: scarpette della Madonna. Ed è molto bello osservare le persone che arrivano, posano bici e bastoni, chiedono un bicchiere di prosecco o un Cinzanino. Forse sanno, forse no. In fondo al vallone, Cuneo e Borgo San Dalmazzo sono sagome appena indovinate nella foschia. Nessun fuoco, mai più. Mai più nessun lupo.