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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Martin Schulz è pronto a dare battaglia alla Turchia: «Non rispetta i patti, quindi niente visti per l’Ue»

 «La proposta della Commissione per liberalizzare i visti dei cittadini turchi è ferma sulla mia scrivania. Il Parlamento europeo non ne discuterà fino a che tutte le settantadue condizioni non saranno soddisfatte dal governo turco». Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz è pronto per un’altra battaglia. «Abbiamo un’intesa con la Turchia, ma il governo turco non sta mantenendo la sua parte dell’accordo: sono loro che rischiano di far saltare il patto».
Ma se salta tutto non teme che ricominci il flusso dei migranti verso la Grecia?
«Non credo. In Turchia i rifugiati siriani sono trattati bene. Ho potuto constatarlo di persona. Non voglio immaginare che il governo di Ankara si schieri dalla parte dei trafficanti di esseri umani».
Come giudica Erdogan?
«Erdogan, non dimentichiamolo, ha ricevuto un chiaro mandato elettorale. Ma sta personalizzando lo Stato turco, sta prendendo sempre più poteri e monopolizzando il processo decisionale. E questo è inaccettabile. Se la legge antiterrorismo viene strumentalizzata per eliminare l’immunità dei deputati siamo di fronte ad una alterazione fondamentale delle regole parlamentari e democratiche».
Come giudica il “migration compact” proposto dal governo italiano?
«È la migliore proposta che sia stata presentata. Dare una scuola e un’educazione ad un ragazzo africano costa pochi euro a testa l’anno e sono soldi ben spesi. Creare centri di registrazione in Algeria o in Marocco dove registrare, informare e aiutare i migranti eviterà a tanti disperati di spendere quel poco che hanno per mettersi nelle mani di trafficanti in un viaggio dall’esito incerto. Ma il “migration compact” può funzionare solo se anche tutto il resto funziona: dai centri di registrazione in Italia al rimpatrio dei migranti irregolari, ai ricollocamenti dei richiedenti asilo».
Non sembra che stia funzionando, però...
«Già. Ma non potete chiedermi di rinunciare alla mia lotta per obiettivi che mi sembrano giusti. Continueremo a batterci. Non sono pronto ad arrendermi».
La questione migratoria è strettamente legata al crescere del populismo in tutta Europa. Non trova che il risultato delle elezioni austriache sia allarmante?
«Intanto in Austria ha vinto il candidato europeista. Credo che la vera lezione che ci viene dal voto austriaco è che, se si mobilita il campo pro-Europa, possiamo ancora vincere le elezioni. Ma per farlo occorre mettere in gioco anche le emozioni. La buona politica deve tornare a nutrirsi di emozioni: la politica deve spiegare, ma deve anche saper emozionare».
Intanto però a Vienna i due principali partiti, popolare e socialdemocratico, sono usciti sconfitti. Non è un segnale?
«È il segnale che non basta essere al governo per avere il consenso della gente. In Austria il governo aveva perso credibilità e molti elettori hanno votato i populisti per protesta. La questione è come fare a recuperare quei voti».
Non crede che il nuovo crinale della politica sia ormai tra europeisti e nazionalisti e non più tra destra e sinistra in senso classico?
«No, non lo penso. La destra e la sinistra hanno ancora un senso. È vero che le posizioni dei due campi cambiano da un paese ad un altro e possono essere molto variegate anche all’interno dei due schieramenti. Ma, soprattutto in materia di politica economica, la differenza tra destra e sinistra è ancora rilevante».
A proposito di politica economica, la nuova flessibilità della Commissione sui conti pubblici non segna un svolta politica dell’Europa?
«Le regole vanno rispettate. Ma esiste anche la responsabilità politica. Abbiamo definito un Patto di stabilità e di crescita, non di instabilità e di stagnazione. L’osservanza cieca del rigore determina instabilità sociale e politica. Per troppo tempo la Commissione ha guardato solo alla stabilità dei conti. Ora fa più attenzione anche alla crescita. Finora l’attenzione è sempre stata concentrata solo sul fronte della spesa. Ma, a furia di tagliare, lo Stato smette di investire e il crollo degli investimenti pubblici trascina con sé anche quello degli investimenti privati. Non si può guardare ai bilanci solo per la voce delle uscite, bisogna guardare anche a quella delle entrate. Per questo sono molto d’accordo con Juncker quando dice, per esempio, che le multinazionali devono pagare le tasse là dove realizzano i profitti. L’elusione fiscale ci ha privato di miliardi di entrate in un momento cruciale della crisi economica. Credo che il varo di una politica fiscale europea non sia più rinviabile».
Ma su questi temi i governi sono molto divisi...
«È vero. In materia di governance economica ci sono profonde divisioni politiche e anche ideologiche. Per questo bisogna ripristinare il metodo comunitario, che prevede decisioni a maggioranza. Invece, nelle loro discussioni, i capi di governo hanno reintrodotto in modo surrettizio un principio di unanimità. Così non si decide e non si governa. Occorre rivedere il processo decisionale europeo».
Quando?
«Io credo che, dopo il referendum in Gran Bretagna, qualunque sia il suo esito, dovremo varare una profonda riforma del funzionamento dell’eurozona. Non possiamo continuare con diciannove politiche diverse. Occorre rifondare tutto il sistema di governance economica e creare un vero bilancio della zona euro».
Le sembra possibile una discussione di questo genere prima delle elezioni francesi e tedesche del 2017?
«Sì. Semplicemente non possiamo permetterci di aspettare. E non aspetteremo. Il Parlamento europeo comincerà a discutere le proposte sul tavolo già da dopo l’estate».