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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Nibali ce l’ha fatta

E poi, in cima a tremilaquattrocentosessantatre chilometri virgola uno, il piccolo Chaves scompare dentro l’abbraccio del gigantesco Nibali, sudore contro sudore, vinto appiccicato come carta moschicida al vincitore. Gli avvicina il becco da colibrì all’orecchio, dice: «In fondo, è solo una corsa in bicicletta».
Finisce così, ai piedi del santuario più alto d’Europa, con l’adrenalina stemperata nella bagna cauda del rispetto tra avversari e nella filosofia di un colombiano, il Giro d’Italia che Vincenzo Nibali ha vinto, perso e poi rivinto, perché certe volte bisogna sentirsi sfilare la strada da sotto le ruote per apprezzare davvero il gusto di pianure, discese, falsipiani e salite. Sceso dal podio onusto di gloria e baci delle Miss, è il campione con quattro grandi giri all’occhiello a spiegarcelo: «Ero partito da favorito, con l’idea di strafare. Carico di aspettative, mie e altrui. Correre così era troppo logorante, non andava bene. A un certo punto mi sono detto: come va, va. E mi sono sentito più libero, più leggero. È quando ho realizzato che non avevo paura né di perderlo né di vincerlo, questo Giro, che ho finalmente capito di stare bene».
Sulle Dolomiti era titubante, nella cronoscalata un uomo finito, ad Andalo sull’orlo del ritiro (a sentire coach Slongo). Giù dal precipizio dell’Agnello, dove si è schiantato il povero Kruijswijk, rimasto giù dal podio con una costola incrinata, l’aria fresca ha rinfrancato Nibalino, arrivato a braccia alzate sul traguardo di Risoul. Giro riaperto, ma poteva non bastare. È stato ieri, sull’ottovolante dei tre colli – Vars, Bonette, Lombarda – che lo splendido ricordo di sé ha dato allo Squalo la forza di volare. 44’’ di ritardo da Chaves maglia rosa alla partenza da Guillestre, 134 km brevi ma intensi per ribaltare la geografia del Giro e ridarle la forma triangolare di un’isola, la sua. «Attacca alle cinque» aveva previsto il c.t. azzurro Cassani, uno che di due ruote ne capisce qualcosa. In anticipo di tre minuti, alle 16.57, il capo della compagnia dei celestini è scattato in faccia ai nemici da classifica, bello come il sole, leggero come ai bei tempi. Cinquecento metri di Col de la Bonette, e aveva già 7’’ di vantaggio. Quando la gamba gira, si salvi chi può. L’estone Taaramae in fuga è già un puntino rosso all’orizzonte, ma non è la vittoria di tappa l’obiettivo dello Squalo a caccia. L’Astana, dopo lo strafalcione di Roccaraso, ha studiato ogni dettaglio: rifornimento prima della discesa, il gregario Kangert fermato ad aspettare il capitano coraggioso, piatto come il lungomare di Messina sulla canna della bici per succhiare attimi al cronometro. Al Gran premio della montagna, è maglia rosa virtuale. Chaves soffre, Valverde è il solito diesel che consuma pochissimo. Giù dalla discesa ha 1’07’’ di margine da amministrare con oculatezza, la stessa con cui saprà premiare gli otto scudieri Astana. L’ascesa al santuario, infine, è pura letteratura del ciclismo, scandita dal rotolare dei secondi.
Taglia la linea serissimo, come se questo Giro deciso per meno di un minuto (52’’) su Chaves e 1’17’’ su Valverde fosse un affare che lo riguarda di striscio. Sorride solo quando gli si buttano addosso in mille: i genitori di Chaves, boss (per poco) Vinokurov, gli avversari, il popolo del Giro. «Meglio del 2013, del Tour e del Lombardia» ammette il mago dei muscoli nibaliani, quel Michele Pallini che accarezzandone il velluto pregiato sa leggere l’umore del campione. Più bello di così, in effetti, si muore. «Tappa spettacolare, giornata indimenticabile. Vorrei fare una statua a Scarponi e a tutta la squadra. Confermarsi è sempre più difficile: ho imparato che non arrendersi mai, alla fine, paga».
Cosa si può dire di un Giro che si è deciso a favore di Nibali all’ultima tappa? Che è stato l’attesa infinita di un bacio mozzafiato. E ne valeva la pena.