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 2016  maggio 29 Domenica calendario

In morte di Giorgio Albertazzi

Raffaele La Capria per il Sole 24 Ore
È un altro della mia generazione che se ne va, li vedo cadere uno a uno come se fossimo in trincea sotto il fuoco di una mitragliatrice. Giorgio era un amico carissimo, simpatico, generoso. Un attore comunicativo che amava molto darsi al pubblico. Ci eravamo conosciuti nell’ambiente del teatro, dove abbiamo lavorato insieme su Diario privato di Paul Léautaud di cui ho fatto la riduzione teatrale. Lui interpretava lo stesso Léautaud. Ne venne fuori un risultato interessantissimo. La sua scomparsa mi riempie di dolore. 

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Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Giorgio Albertazzi, nel ’63 indimenticabile Amleto in nero esistenziale, è passato ieri mattina dall’essere al non essere nella sua tenuta in Maremma: il suo cuore ha smesso di battere alle 9. Lo ha comunicato la moglie Pia Tolomei di Lippa sposata nel 2007 quando lui, insaziabile kierkegaardiano seduttore, aveva 84 anni e lei 48. Alla Pescaia di Grosseto, oggi alle 17 «va in scena» un saluto agli amici. Non un funerale raccomandava l’attore, che in 70 anni di carriera, iniziando paggio nel Troilo e Cressida a Boboli diretto da Visconti, protetto dai versi classici ma sempre in cerca del nuovo, fu regista, sceneggiatore, riduttore, esibendo il «duende», entrando e uscendo da rimorsi e rimpianti, delitti e castighi, nostalgie, colpe e redenzioni: Pilato sempre, diceva un titolo.
Il successo con Il seduttore di Fabbri, prima di iniziare il lungo sodalizio con Anna Proclemer, con cui visse venti amorosi anni di gioia e fuoco, dentro e fuori scena, amandola come Aligi della Figlia di Jorio, come Osvaldo negli Spettri, come Antonio per lei Cleopatra; e l’ultima volta nel Diario privato di Léautaud con la regia di Ronconi; e anche con la disperazione del Requiem per una monaca di Faulkner-Camus o col brio inglese del Caro bugiardo di Shaw diretto da Crivelli. Fu, scandalosamente, il primo drogato in scena nel C appello pieno di pioggia fino al Franz dei Sequestrati di Altona di Sartre dove prende sulle spalle la storica colpa nazista; e il non eroe di Pietà di Novembre di Brusati su Kennedy. Albertazzi esprimeva un lamento, una rabbia, una sofferenza nuova e antica, che era copyright di Amleto ma anche della sua generazione uscita dalla guerra, ribelle senza causa, una disperazione senza desideri. Dentro quella sua meraviglia di voce impastata col sogno e l’incubo che arrivava nel cuore, inchiodò la gente negli schermi rigati delle prime tv, offrendo il meglio del dubbio, l’eleganza dei versi, l’amore di Romeo e Liliom: nel suo volto c’erano dilemmi antichi, le calzamaglia di Schiller, De Musset, Shakespeare ma anche La governante di Brancati, La fastidiosa, L’uovo di Marceau, il germe pirandelliano della follia dell’ Enrico IV, suo trionfo allineato in riga con Riccardo III, Re Nicolò, Casanova e il Mattia Pascal di Kezich. Avverso al teatro di regìa che gli stava stretto (famosa la querelle con Strehler), trovò il suo ideale in Memorie di Adriano della Yourcenar: quell’imperatore battagliero e in amore per circa 30 anni convisse con lui accompagnando la malinconia rugosa della sua terza età mai accettata e vivacemente contrastata improvvisando, confondendo spazio e tempo di un teatro che si andava facendo piccolo (l’ultima parte di questa avventura sarà in uno speciale di Rai Cultura).
Fu il primo divo teatral-televisivo, toccando l’apice con L’idiota di Dostoevskij, sceneggiato capolavoro farina del suo sacco. In quel periodo il grande Alain Resnais lo volle in L’anno scorso a Marienbad, misterioso viaggio, fantasma vagante in luogo e tempo lontani, cui seguì la barocca Venezia di Eva di Losey con la Moreau e Ti ho sposato per allegria della Ginzburg con Monica Vitti che era stata la sua Marilyn in Dopo la caduta di Miller, autore con cui sedeva sullo stesso lettino freudiano, regista Zeffirelli. Un successo con gossip, cui Albertazzi non si sottraeva sia che soffrisse come principe di Danimarca sia che ballasse sotto le stelle in attesa della «bella signora» che se lo sarebbe portato via.

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Rodolfo Di Giammarco per la Repubblica
“Par délicatesse. J’ai perdu ma vie” è la frase di Rimbaud stampata sul tappeto della suite verde cupo e beige del prestigioso Grand Hotel et de Milan dedicata a un artista fino a ieri vivo e intemperante, Giorgio Albertazzi, accanto a quelle intestate a Verdi, Callas, Visconti, Strehler, Bene. Ora la suite tutelerà di lui - morto in Toscana nella casa della moglie Pia De’ Tolomei a 92 anni, nipote di una nonna Leonilde arrivata a 101 anni, e pronipote di una bisnonna giunta a 108 - l’esaltatore della parola eletta a bellezza visiva e musicale, il Don Giovanni raisonneur, l’anarchico narciso che si sentiva vicino alle corde di Borges più che a quelle degli interpreti accademici.
D’altronde il fasto riservatogli da un hotel d’alto rango fa il pari con l’exploit estetico del suo battesimo teatrale (quello più noto) del 1949, nelle file del
Troilo e Cressida di Shakespeare allestito da Luchino Visconti nel giardino fiorentino di Boboli. Con Albertazzi non se ne va via un semplice uomo, ma un contraddittorio mito, un’inquieta macchina desiderante, un reo confesso dedito a sapere per disimparare, un architetto (laureato in architettura) impeccabile della propria cultura della mente e del corpo, un dissipatore, un amante della grazia, della bellezza e del mistero delle donne, un attore maturato sempre più in controtendenza («Mi reputo un autore che va in scena ma non recita», diceva evocando un’affinità che sentiva con Carmelo Bene).
Eppure Albertazzi, nato a Fiesole il 20 agosto 1923, era ed è arcinoto a molti pubblici, a più generazioni, per aver messo a segno in palcoscenico commedie e drammi di grande presa, alternando lavori sofisticati a operazioni popolari. Quella sua tendenza naturale alla vanità gli fa avere successo nel Seduttore di Fabbri con la Ricci-Magni-Proclemer- Albertazzi-Buazzelli, compagnia da cui si separerà del 1956 per formare la ditta Proclemer-Albertazzi, coppia anche nella vita tra le più amate da spettatori e commentatori (con repertorio, tra l’altro, di D’Annunzio, Ibsen, Sartre, Miller, Brusati). Qualcosa non va, nel 1971, nel suo Pilato sempre. Ma intanto, pioniere della tv, era già diventato una figura di culto del video negli anni 50 e 60 con Delitto e castigo, I capricci di Marianna di De Musset o il memorabile Idiota da Dostoevskij, o il suo Jekyll da Stevenson, dove inserisce la scienza delle molecole staminali, tornando nel 1974 a un alto gradimento tv in Philo Vance da Van Dine.
Inconfondibili le sue letture di classici, dalle novelle all’Inferno di Dante. Notevole, nel frattempo, anche il bilanciamento intellettuale nel settore dei film d’autore, dove (37 film in tutto) resta uno straordinario esempio il suo contributo a L’anno scorso a Marienbad di Resnais, e dove firma lui stesso il problematico Gradiva.
Ma Albertazzi, per dirla con Shakespeare (ne ha interpretato in tutto almeno sedici opere, e lo ha proposto anche in versione jazz), è un uomo d’onore del palcoscenico. Nel 1964 con un
Amleto diretto da Zeffirelli registra all’Old Vic di Londra (assieme alla Proclemer e alla Guarnieri) un successo anche di tenitura come non era mai accaduto ad artisti non inglesi. Negli anni 70 e 80 inizia un percorso più personalizzato di cui sono pietre miliari Riccardo III, Re Nicolò di Wedekind e Enrico IV di Pirandello con regia di Calenda, finché dalla fine degli anni 80 Maurizio Scaparro ha la felice idea di mettergli sulle spalle, sulla voce e sulla malinconia individuale dello spirito Le memorie di Adriano della Yourcenar, un ruolo che giustamente non abbandonerà più, con quella devozione per l’etica, per l’amico Antinoo e per il corpo che va a morire con le gambe che non lo sostengono più bene. Qui il pensiero va subito all’Albertazzi che dall’estate scorsa non mancava i suoi appuntamenti col pubblico a costo di usare una sedia a rotelle, come è accaduto per le sue ultime uscite a Roma con brani de La tempesta e, all’inizio di marzo, delle Memorie.
Ma noi lo ricorderemo irrefrenabile, incline a elogiare il senso portato alla sua esistenza da Bianca Toccafondi, dalla Proclemer, da Elisabetta Pozzi, da Mariangela D’Abbraccio, fino a sancire la quadratura del cerchio con la moglie (dal 2007) Pia de’ Tolomei (36 anni in meno, a lui vicina da molti anni, country- woman col cuore insediato nella Maremma), loquace e consapevole nel ricordare la sua adesione alla Repubblica Sociale di Salò dovuta a una scelta alla D’Annunzio più che a un atto fascista (presenziando da sottotenente a un’esecuzione), pronto a un dialogo istintivamente amichevole sul teatro in più puntate televisive a fianco di Dario Fo, determinato a dirigere dal 2002 al 2008 il Teatro di Roma, ardito e sincero nel dirsi non credente, veloce nel parlare bene dei giovani (Antonio Latella che lo diresse in Moby Dick e Re Lear, Marco Foschi, Eleonora Danco…), disposto a inseguire Calvino in un laboratorio scenico lucidissimo, votato alla scrittura autobiografica come dimostra quel suo libro ironico Un perdente di successo edito da Rizzoli nell’88, magari un po’ deluso di non avere un gruppo di sostenitori come Carmelo e Ronconi («Sarà che io sono nato come un bastardo della tv…»). Ma di strade ne ha fatte, ne ha tentate, e sapeva parlare con una Biblioteca d’Alessandria nella testa.
Oggi alle 17 la cerimonia nella tenuta di famiglia alla Pescaia di Grosseto: «Non un funerale, perché il maestro desiderava così, ma un saluto agli amici», si legge nella nota dei familiari.

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Osvaldo Guerrieri per La Stampa
È stato paragonato a un camaleonte, ma Giorgio Albertazzi si è sempre visto come un uomo in fuga da sé e persino dal successo. Non pensava di recitare. Se cominciò fu a causa di una bella ragazza. Quando lei gli disse «Vado a Settignano, si fa un po’ di teatro, perché non vieni anche tu?» non ci pensò due volte. Ci andò per lei, ma la sua ambizione era scrivere. Penserà a questo anche quando non c’era platea che non lo applaudisse, anche quando toccava il vertice della gloria recitando all’Old Vic di Londra nell’Amleto di Zeffirelli, invitato nel 1964 da Laurence Olivier per il quarto centenario di Shakespeare, ottenendo, unico attore di lingua non inglese, di essere accolto nella galleria fotografica dei grandi interpreti shakespeariani.
Gli inizi
Era nato a Fiesole. Il primo tentativo di rappresentare se stesso fu intorno alla vasca per lavare i panni nell’orto di casa sua, che era poi la portineria della villa «I Tatti» di Bernard Berenson. Aveva 10-11 anni. Affondava le mani nell’acqua colorata dal turchinetto e raccontava ai coetanei storie inverosimili che s’andava inventando. Quella villa era la sua mitologia. Vi aveva lavorato come muratore suo nonno e lui, Giorgio, la abitava incantandosi a spiare da una finestrella il grande storico dell’arte e i suoi ospiti: i Churchill per esempio. L’incanto durò fino a quando il Professore decise di murare la finestrina. 
Finì il voyeurismo, ma non finì il sentimento dell’acqua, che continuò a scorrere musicale nella sua voce. Si può dire che tutta la prima parte della sua vita d’attore si sia svolta sotto il segno della grazia, a cominciare dal Troilo e Cressidamesso in scena da Visconti nel ’49 per il Maggio Musicale. È questo il suo atto di nascita artistica. Prima di allora c’era stato un trauma: l’arruolamento nella RSI, la prigione dal ’45 al ’47 per aver comandato un plotone di esecuzione e poi, una volta libero, gli studi di Architettura e il gettarsi nella mischia teatrale con attori più importanti di lui: Gassman, la Zareschi, Girotti. 
Il divo della tv
Scocca il 1955. Albertazzi è già migrato verso la tv e coglie una popolarità vastissima con la rubrica settimanaleAppuntamento con la novella. La telecamera gli inquadra la mano nell’atto di aprire un libro e lui comincia a leggere con un’emissione soffiata e intensa che si sovrappone al volto bello e affilato. È nato il primo divo della tv. Albertazzi interpreta commedie in presa diretta con tutti i rischi del caso: ci fu la volta in cui era previsto che Renzo Palmer gli rompesse una bottiglia (finta) in testa. Invece la bottiglia era vera e Albertazzi terminò la recita sanguinando. In tv crea cose memorabili:L’idiota di Dostoevskij e Jekyll e Hyde di Stevenson. Ma ecco: al colmo del successo, il camaleonte torna al teatro. 
L’amore
Nella sua vita ora c’è Anna Proclemer. Con lei apre un percorso di guerra e d’amore. Anna lo costringe a meditare su di sé. Lui dirà che prima di quel momento recitava perché non riusciva a scrivere. Ma con Anna tutto cambia. Lei sembra fissargli i confini entro cui si sviluppa la mimesi istrionica e dentro quei confini lui porta i suoi zig-zag interpretativi, il jazz delle sue improvvisazioni. È allora che nascono Un cappello pieno di pioggia, I coccodrilli, La figlia di Jorio, Spettri. La ditta è campione d’incassi. Albertazzi recita da neoromantico con un pizzico di fosforo autobiografico. Fa un po’ lo sciamano, di lui si raccontano pratiche esoteriche mai del tutto vere. Intanto si avvicina adAmleto e si stacca dalla Proclemer. Tornerà a lei nel 2005 per recitare nel Diario privato di Léautaud diretto a Ronconi. 
Da tempo Albertazzi è ciò che fa o ciò che non fa. Attraversa il cinema, ma dei suoi film ne resta solo uno: L’anno scorso a Marienbad di Resnais, Leone d’oro a Venezia nel 1961. Il cinema naturalmente lo delude. Dice che i registi italiani vogliono taxisti e non attori. E allora prova finalmente a scrivere (il dramma Pilato sempre, l’autobiografia Un perdente di successo). Soprattutto butta via l’attore che è stato. La metamorfosi si precisò nell’83 con Enrico IV di Pirandello vissuto in scena come un pagliaccio. Si chiudeva un processo autodistruttivo e nasceva un attore nuovo che, nel rispetto del testo, si rifugiava nei margini del non detto. Finché nell’89 entrerà nella grandezza amara dell’imperatore Adriano calligrafato dalla Yourcenar. 
Certo ha continuato a sorprendere, come quando, a 84 anni, ha sposato la quarantenne Pia de’ Tolomei, ma ormai era Adriano. Il corpo stanco dell’imperatore e i suoi stupori verso la grazia e la bellezza erano diventati la sua autobiografia. Forse Adriano è stato l’unico essere a cui Albertazzi, uomo di tradimenti, si sia conservato fedele fino in fondo senza sentirsi mai in trappola.

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Giordano Bruno Guerri per il Giornale

Lucido e leonino fino all’ultimo, fino all’ultimo Giorgio Albertazzi non ha mai sentito la necessità - così umana - di essere simpatico al prossimo. Sapeva di essere bello, colto, intelligente, fascinoso, fico e per di più fiorentino, caratteristica che ai fiorentini piace particolarmente. Voleva che gli venisse riconosciuto di essere bravo nel suo mestiere, questo sì, ma sapeva anche di essere bravissimo. Sapeva, insomma, di essere Albertazzi (di sé parlava in terza persona, «Albertazzi ha detto», «Albertazzi ha fatto») e tanto gli bastava, gli altri si arrangiassero, e pensassero quel (...)
(...) che volevano di lui. Beninteso, essendo anche un uomo dabbene, un signore, non mancava di umana comprensione, di empatia, senza però concedere niente ai conformismi, alle giustificazioni, ai compromessi di comodo. L’esempio più noto è la sua partecipazione alla Repubblica sociale italiana. Aveva vent’anni, e non rinnegò mai il se stesso giovane, ma neanche ne menava vanto, come fosse qualcosa che era superfluo spiegare.
Provai a parlargliene, una volta, in quella sua casa romana strapiena di buoni libri, di premi ricevuti, di locandine di spettacoli e di sue fotografie in cui tutto gridava Albertazzi! Albertazzi! Non rispose neppure, bastò un gesto con la mano - non a caso era un grande attore - per dire che non c’era niente da dire. Eppure aveva sparato, aveva ucciso. Ma non c’era niente da dire perché così era stato, della storia si sarebbero occupati gli storici, di sé si occupava lui.
Io so, tutto il suo essere lo dimostrava, che non era un fascista, né tantomeno un sanguinario. E sono convinto che se, nella maturità, si fosse trovato ad affrontare la stessa situazione, sarebbe salito sui monti a difendere la libertà e non il senso dell’onore e della patria che gli avevano inculcato da giovane. Però non si sentiva tenuto a dirlo, a dare spiegazioni, la sua vita era sua, agli altri, a noi, appartenevano soltanto le molte vite che rappresentava sui palcoscenici, e che generosamente elargiva.
Di questo modo di essere ho un altro ricordo. Si era in uno studio televisivo, dove sedeva svogliato e distratto, senza curarsi neanche di sapere bene di cosa si parlasse e chi ci fosse intorno a lui. L’avevano invitato e c’era andato. A un certo punto il conduttore chiamò un ragazzo a recitare La pioggia nel pineto. Albertazzi si fece attento di colpo, ascoltò pochi versi della recita, né brutta né bella, poi senza profferire verbo si tolse il microfono, si alzò e, molto semplicemente, se ne andò dallo studio. Gli avevano fatto l’affronto di far recitare a un dilettante, lui presente, d’Annunzio, una sua passione; per di più La pioggia nel pineto, un cavallo di battaglia. Lo inseguii, e gli spiegai che quel ragazzo aveva un disturbo mentale e faceva parte di un progetto di recupero degli handicap attraverso il teatro. «Oh, poveretto», disse, sinceramente dispiaciuto: «Ma non si fa recitare a nessuno d’Annunzio, se ci sono io». E se ne andò.
Ora se ne è andato nello stesso modo, lasciandoci ai fatti nostri. Tanto, in scena non c’è più lui.