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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Perché dobbiamo fare i conti con i tre percorsi su cui si è costruito il modello di sviluppo italiano dagli anni 70 in poi

Non so, nessuno sa, cosa dirà il Governatore della Banca d’Italia nelle sue «Considerazioni finali» di martedì 31 maggio; e quali diverse reazioni ne deriveranno. Sappiamo però per certo, conoscendone il rigore umano e professionale, che egli dedicherà particolare attenzione ai temi che sono di sua istituzionale competenza, cioè le vicende della moneta, della finanza pubblica, del sistema bancario; e forse sarà più cauto sui temi, squisitamente di responsabilità governativa, della mobilitazione ed orientamento, al di là della conferma o meno dei segni della attesa ripresa, dei diversi soggetti del sistema, individuali o collettivi che siano.
Non c’è dubbio che tali soggetti, che pure negli ultimi 50 anni hanno fatto tanto sviluppo e poi tanto fronteggiamento alla successiva crisi, sembrano oggi in un momento quasi passivo di fronte ad una politica che, angosciata dalla crisi vera e da una ripresa tanto attesa, cerca di forzare dall’alto la dinamica dell’economia fidando sull’uso di una inaudita quantità di moneta disponibile e destinata ad irrorare campi presuntivamente aridi. Da tempo immemorabile non si sentiva parlare così facilmente di miliardi, di tanti miliardi: a migliaia nelle azioni delle autorità bancarie europee; a spiccioli di decine e decine nelle ambizioni del governo nazionale di interazione con sempre più numerosi sgravi e sempre più bonus (di ogni tipo e motivazione), nella convinzione che la quantità di moneta immessa nel sistema alla fine produca l’aumento delle disponibilità finanziarie dei vari soggetti, l’aumento dei consumi, la conseguente ripartenza della produzione ed un complessivo scatto in avanti di una ripresa finora accidentata.
Dio ce la mandi buona, verrebbe da dire, ricordando che la leva monetaria è sempre funzionale al controllo più che alla liberazione delle energie espansive, come ci insegnò per primo Guido Carli dopo il cosiddetto miracolo economico e più ancora ricordando a tutti noi che l’irrorazione monetaria ha successo solo se si aggancia strutturalmente al Paese, alla spontanea dinamica dei soggetti sociali e alla chimica dei loro comportamenti. Altrimenti si può rischiare, come è avvenuto in anni recenti, che l’innaffio monetario non vada a stimolare comportamenti proattivi, ma ad alimentare piuttosto aggiustamenti protettivi e regressivi di propensione al risparmio.
La realtà vince sempre sulle intenzioni di sviluppo, se queste non tengono conto della base su cui lavorare. A tal fine converrà ricordare, con una logica «continuista» che non è molto di moda, i processi reali con cui fare i conti: i tre percorsi su cui si è costruito il modello di sviluppo italiano dagli anni 70 in poi.
In merito non basta rinnegare l’esplosione delle piccole e piccolissime aziende e imprese; fare prediche sul nanismo imprenditoriale con accorati inviti a «crescere, crescere»; ma non basta neppure una innaffiata di sgravi, bonus ed incentivi. Occorre invece collegarsi alla dinamica spontanea delle piccole imprese: esse non vanno verso il primato delle grandi dimensioni, ma verso la loro progressiva inserzione in una logica di filiera (settoriale o di prodotto che sia). Se si vuole ottenere la progressiva vitalità del sistema di impresa, la strada è obbligata: bisogna privilegiare la logica e la logistica della filiera e bisogna incentivare i comportamenti delle imprese a starci dentro.
Il secondo grande processo reale su cui si è costruito lo sviluppo italiano e con cui devono fare i conti coloro che vogliono passare dalla ripresa allo sviluppo è quello della esplosione del ceto medio (la cosiddetta cetomedizzazione). Anche qui non si può restare sulla difesa e/o condanna a oltranza del ceto medio; alle lamentele per la sua crisi; alle preoccupazioni per il suo sgretolamento in basso (la sua «precarizzazione»); all’attuale propensione ad una politica di bonus a pioggia che sfrutta al massimo l’alta disponibilità di moneta. Non si è ancora colto il fatto che il processo di cetomedizzazione iniziato negli anni 70 ha esaurito la sua forza di spinta: tenerlo come compatto riferimento del futuro sviluppo è cosa inutile; e controproducente. Non per condannare moralisticamente la natura piccolo-borghese, consumista, egoista e narcisista del ceto che ha prodotto, ma perché occorre cogliere i germi della sua futura evoluzione, visto che cominciamo a vedere comportamenti di uscita dall’affastellamento un po’ inerte e il tendere di piccoli e medi gruppi a distinguere e perseguire un proprio destino: i piccoli imprenditori che vanno in filiera; gli imprenditori medi che vanno verso un’assunzione di responsabilità collettiva quasi da classe «neoborghese»; i giovani di medio-alta cultura che studiano e lavorano all’estero; i tanti che fanno impresa sulla conoscenza (dagli artigiani digitali alla sfruttamento dei brevetti e licenze). Restano ancora quei gruppi immobili e pesanti della componente burocratico-terziaria; ma, al di là delle convinzioni elettorali, non è giusto innaffiare la palude.
Ed arriviamo così alla terza forte componente della nostra dinamica economica e sociale: la famiglia, nelle sue diverse declinazioni, soggetto centrale sia nell’interpretazione della crescita (la famiglia soggetto cioè unificato di reddito, consumo, risparmio e investimento); sia nei drammi della crisi (la famiglia che ha ammortizzato i cali di occupazione e di salari e tutte le relative conseguenze). È stato sempre troppo facile esaltare o dannare il valore della famiglia italiana; ma al di là di tali giudizi occorre prendere atto che la famiglia non è più soltanto il grande soggetto che regola indirettamente le dinamiche economiche, ma è sempre più il più grande e responsabile soggetto di welfare, cioè un soggetto che spende di suo nei diversi campi del sociale, dalla sanità all’assistenza, agli anziani, dalla scuola alla previdenza. Se è così, non basta più aumentare la sua ricchezza monetaria e la sua propensione al consumo, è più corretto pensare ad interventi articolati per i diversi campi su cui la famiglia è impegnata. L’attuale governo deve essersene accorto, se pensa non di replicare il modello del bonus indifferenziato, ma di articolare interventi specifici (in materia di natalità, di studi avanzati, di consumi culturali alti); e su quella strada occorrerà andare avanti.
Richiamare il primato della piccola impresa, della cetomedizzazione, della famiglia è il segno di una volontà di continuare a macinare la realtà per come essa si presenta giorno per giorno e si evolve silenziosamente nei processi di media durata.