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 2016  maggio 29 Domenica calendario

A caccia di scafisti sulla portaerei «Cavour»

Una fortezza Bastiani galleggiante, e i Tartari arrivano davvero. Arrivano disarmati e disperati. Oltre dodicimila, questa settimana. Almeno settanta se li è presi il mare, ma potrebbero essere molti di più.
La portaerei «Cavour», avvicinandosi in elicottero da Lampedusa, sembra un giocattolo tra le onde. Dall’alto appare lo scafo, poi la plancia di comando e il radar di scoperta aerea, infine il ponte con lo ski-jump, il trampolino di lancio al termine della pista di decollo. Ventisettemila tonnellate grigie nel mare blu, a trenta miglia dalle acque libiche. L’Europa finisce qui.
Non è una fine cronologica: non ancora. È una fine geografica. Una frontiera che risulta evidente a chi arriva da sud, e cerca sollievo alla miseria. Meno chiara a chi osserva da nord. L’opinione pubblica europea fatica a capire che qui, in questo quadrato di Mediterraneo, si gioca il destino di due continenti. Dietro i porti degli scafisti iniziano trenta milioni di chilometri quadrati d’Africa, popolata da un’umanità in movimento. A terra si litiga senza capire. In mare si capisce senza litigare.
La nave «Cavour» guida Eunavfor Med, la missione europea contro i trafficanti di essere umani. Non è l’unico sforzo comune. Nel Canale di Sicilia, più a nord, opera Triton, l’operazione dell’agenzia Frontex. Più a sud Mare Sicuro, che protegge i pescherecci italiani e le piattaforme che stasera mandano fiamme all’orizzonte. Ci sono imbarcazioni di organizzazioni non-governative e della Guardia Costiera. Tutti a cercare di fermare qualcosa che non si ferma.
L’ammiraglio Andrea Gueglio, ligure, comandante della missione, tira fuori qualche cifra che spiega la forza dei suoi lugubri avversari. Venire dalla Libia costa. Un passaggio su un gommone, da 500 a 1.000 euro. Su una barca in legno, da 1.100 a 1.300 euro. Su un peschereccio, da 2.500 e 3.500 euro. Un viaggio può fruttare agli scafisti più di un milione. Non smetteranno, se non sono costretti. Oggi il traffico di essere umani è la seconda industria libica, dopo il petrolio.
Eunavfor Med è stata ribattezza «Operazione Sophia» dal nome di una bimba nata sulla fregata tedesca «Schleswig-Holstein», figlia di una donna africana soccorsa in mare. All’operazione aderiscono 24 nazioni: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Rep. Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia. C’è chi fa di più e chi fa di meno. L’Italia guida la missione, fa molto e lo fa bene. I nostri militari non saranno guerrieri feroci: ma quando c’è da combinare disciplina e prontezza, sono tra i migliori.
È curioso come i caratteri nazionali diventino complementari, su una nave europea. Il capitano di vascello Alberto Sodomaco è un triestino di poche parole. Il comandante Captain Jose Maria Fuente de Cabo, Chief of Staff, uno spagnolo esuberante. Due ufficiali francesi e un ufficiale sloveno si occupano di intelligence. L’austriaco tiene i conti e parla di politica. I tedeschi, che andiamo a visitare sulla nave rifornitrice «Frankfurt», sono organizzati: hanno pronti i kit per i migranti, numerati. All’inizio partecipavano ai soccorsi con pesanti tute sigillate, perfette per il mare del Nord. Poi hanno capito che a trenta miglia dalla Libia fa caldo.
Nave «Cavour» pattuglia lentamente, cinque nodi. Saliamo e scendiamo scale verticali, ascoltiamo spiegazioni di turbine e armamenti. C’è qualcosa di surreale nel vedere il sistema missilistico superficie-aria Samm-It e i cannoni calibro 76mm, a doppio caricamento, dotati di munizionamento radio-guidato di tipo Dart (Driven Ammunition Reduced Time of flight): le minacce, oggi, sono altre. Ma i visori notturni servono. Gli elicotteri sono indispensabili. L’hangar, necessario per il ricovero e la manutenzione, diventa teatro di una conversazione collettiva, la domenica pomeriggio. Si alzano uno dopo l’altro, gradi diversi sulle spalle: ufficiali, sottufficiali, marinai e vogliono parlare di immigrazione e di Europa, di libri e di Donald Trump. È un tentativo di portare normalità in un luogo eccezionale, e funziona.
Tante ragazze del sud, nella fortezza Bastiani galleggiante. Le trovo dovunque. Tra gli ufficiali e in infermeria, nell’hangar e in plancia. Non in cucina e in lavanderia, a meno che non si siano nascoste al mio arrivo. Parlando con alcune di loro capisco che la Marina Militare non offre solo un impiego e uno stipendio, ma una narrazione. La sensazione che la propria vita vada da qualche parte, come questa nave.
C’è Martina Muto, comune di 2° classe, 19 anni, di Pompei, addetta alle operazioni dell’hangar della portaerei. Parla e sorride con gli occhi azzurri. Quando, durante un’esercitazione di salvataggio, c’era bisogno di un uomo in mare, s’è buttata lei, una donna. Dice Gueglio che, quand’è risalita, era entusiasta: «Ammira’, ma quando mai potevo immaginare una cosa del genere!».
C’è Anna Tradigo, comune di 1° classe, 21 anni, tarantina. È minuscola, vivace, porta i capelli raccolti. Lavora nell’hangar, ha militato in A2 di pallacanestro: quando si gioca sulla nave, tutti la vogliono in squadra. «Voglio diventare tecnica dei Ris dei Carabinieri», dice seria. «La prima volta mi è andata male, ma essere qui aumenta il punteggio. E poi in mare mi trovo bene». L’hanno messa a tavola con l’ospite, l’ammiraglio e il comandante, ma non sembra per nulla intimorita.
C’è il tenente di vascello Seila Di Luca, capo componente del servizio armi e ufficiale di guardia in plancia. C’è il tenente di vascello Gabriella Nastasìa, pugliese. Incarico: «capo componente tecnico operazioni garante della connettività Internet e telefonia di bordo». Traduzione: quando non riescono a telefonare a casa, vanno da lei. Sulla «Cavour» solo telefoni fissi, niente cellulari. Internet per la posta elettronica. Niente social.
C’è il tenente di vascello Ilde Covino, dottoressa di bordo: mi mostra le due sale operatorie, l’unità di terapia intensiva e quella di rianimazione, l’unità per il trattamento dei pazienti ustionati e quella di diagnostica per immagini, l’unità odontoiatrica e le tre sale degenza con 32 posti letto. È orgogliosa del suo ospedale che si muove sul mare e sa, purtroppo, che si riempirà spesso.
In questo momento, a bordo, stanno 550 persone. Ma sulla «Cavour» ci sono 1.200 letti. Uomini e donne hanno alloggi separati. Mi portano nello spazio femminile dell’equipaggio – diciotto brande, ognuna protetta da una tenda. In fondo bagni e docce. «Siete solo in nove», dico. Come fa a saperlo? «Ho contato gli accappatoi».
L’ammiraglio Gueglio sostiene che le donne hanno migliorato la Marina e ingentilito le navi: è scomparso il nonnismo, per esempio. È come se i maschi si sentissero osservati, e la cosa non gli dispiacesse. Chiedo se sono ammessi rapporti sentimentali o sessuali. Mi guardano come un marziano. «Un uomo e una donna insieme? La porta resta aperta», spiegano. E se qualcuno la chiude?, domando. Sorridono.
C’è una strana atmosfera su una nave in missione. È come se tutti sapessero di essere utili. È come se il lavoro servisse e il riposo contasse. L’equipaggio nel tempo libero legge, guarda la tv, corre, gioca, mette il tavolo da ping-pong dove stavano gli elicotteri. La domenica sera la vedetta e un barista, Massimilino Bucci e Raffaele Raffo, prendono tromba e sax e suonano «September» degli Earth, Wind and Fire. Ci sanno fare, suonano bene. Leonardo Vaira, nostromo di bordo, invita Antonia Ferro, infermiera. Ballano. Ballano al centro della sala. Ballano sapendo che hanno visto cose tristi e altre ne vedranno. Ballano sul confine ultimo dell’Europa: che non è finita, grazie a gente come loro.