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 2016  maggio 30 Lunedì calendario

Il fallimento del Venezuela, altro che modello

Dieci anni fa, nell’autunno del 2005, Rifondazione Comunista organizzò una serie di incontri pubblici con Hugo Chavez, il «Comandante», ex militare e presidente del Venezuela dal 1998. A Milano la folla era così numerosa che l’incontro venne spostato da una sala interna della Camera del Lavoro alla piazza davanti all’edificio. Al comizio prese parte tutta la sinistra radicale milanese, c’erano Toni Negri, Franca Rame e Dario Fo. All’epoca Chavez era già da anni uno degli idoli del movimento anti-globalizzazione e il suo governo – anti-americano, anti-multinazionali, favorevole a una tassazione proibitiva, all’intervento massiccio dello Stato nell’economia, al controllo dei prezzi, alla produzione agricola locale – aveva già ispirato molti intellettuali a dire: «Facciamo come il Venezuela». In Italia, la sinistra radicale lo ha sempre indicato come un modello. Decine di circoli di Rifondazione Comunista sono dedicati al «Comandante Chavez», che è stato celebrato da intellettuali come Gianni Vattimo e sacerdoti-attivisti come padre Alex Zanotelli. Il leader di Sel Nichi Vendola ha apprezzato alcune delle riforme del leader venezuelano, pur con qualche sospetto sulle sue scarse credenziali democratiche, mentre il suo numero due, Gennaro Migliore (ora con il Pd renziano), è sempre stato un entusiasta sostenitore del regime. Ancora oggi, il Venezuela e il pensiero di Chavez ispirano personaggi come come il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che incontra spesso l’ambasciatore venezuelano in Italia.
Come ha notato Luciano Capone sul Foglio, in queste settimane in cui c’è un grande dibattito sulla riforma della Costituzione, professori come Alberto Lucarelli, docente di Diritto pubblico alla Federico II di Napoli e firmatario di appelli insieme a Rodotà e Zagrebelsky, tengono convegni per esaltare la Costituzione venezuelana, nonostante nel Paese da due anni oramai si governi a colpi di decreti legge, senza consultare il Parlamento. Quando Chavez morì di tumore a 58 anni nel 2013, Don Gallo celebrò una messa in suo onore, mentre il giornalista Gianni Minà commentò: «Con la sua morte il processo di modernizzazione del Venezuela non si fermerà. Chi si aspetta che il Paese collassi, si sbaglia». Ma purtroppo per il popolo venezuelano, era Gianni Minà ad essersi sbagliato: dieci anni dopo quel comizio a Milano, il Venezuela è un paese allo sfascio.
Negli ospedali mancano i farmaci e i medici sono costretti a lavarsi le mani con l’acqua gassata; nei supermercati non si trovano beni di prima necessità, come olio, zucchero e persino carta igienica, mentre l’inflazione nel 2015 ha raggiunto il 275 per cento. Nonostante il Venezuela sia seduto sulla più grande riserva di petrolio del mondo, il Paese è senza energia elettrica e il governo per risparmiare ha tagliato la settimana lavorativa dei dipendenti pubblici a due giorni a settimana. Fino a pochi anni fa, quando la crisi del Paese cominciò a far sentire i suoi effetti, il Venezuela era soprattutto oggetto di battute e ironia da parte di economisti e commentatori conservatori per via dello spettacolare fallimento delle sue politiche socialiste. Oggi la farsa si è trasformata in dramma e il Paese è a un passo dal precipitare in una crisi umanitaria come il continente sudamericano non vedeva da decenni.
Quello che è accaduto in Venezuela è una sorta di manuale da non seguire per i Paesi in via di sviluppo, ma contiene lezioni importanti per i leader populisti di tutto il mondo. Come spesso succede, all’inizio le politiche attuate da Chavez furono accolte in maniera neutra e in molti casi positiva. Quando divenne presidente per la prima volta, nel 1998, il Venezuela era un Paese impoverito da decenni di governi corrotti e conservatori e da una serie di indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, sbagliate o male interpretate a seconda dei punti di vista. Alla metà degli anni Novanta l’inflazione aveva raggiunto il 100 per cento e più della metà della popolazione si trovava sotto la soglia di povertà. L’elezione di Chavez venne salutata come un segnale di riscatto e di speranza dai movimenti di sinistra di tutta l’America Latina e dai radicali di tutto il mondo.
Le sue politiche si basavano su una serie di cardini che non sono così lontani dall’idea della sinistra europea più radicale e da quelle di molti movimenti populisti. Grazie ai proventi della PDVSA, la grande società petrolifera pubblica, Chavez varò una serie di imponenti programmi di spesa pubblica, mirati da un lato a migliorare la diffusione dell’istruzione e della sanità, ma che avevano anche lo scopo di acquistare consenso tra le fasce più povere della popolazione. Il Venezuela divenne il Paese con la benzina più sussidiata ed economica al mondo: 5 centesimi al gallone, meno di acqua e meno persino dell’aria compressa con cui si gonfiano le gomme delle auto. Chavez riuscì ad abbassare l’inflazione, ma anche a causa degli imponenti programmi di spesa non la riportò mai sotto il 30 per cento.
Un’inflazione così alta finisce irrimediabilmente con l’erodere il potere d’acquisto delle famiglie e per cercare di risolvere la situazione, Chavez introdusse un’altra costante di molti regimi populisti: il controllo sui cambi e quello sui prezzi. Questi ultimi spesso sono stati stabiliti a un livello così basso che agli imprenditori non conveniva più produrre, perché si trovavano costretti dallo Stato a vendere a prezzi inferiori a quelli di costo. Ma chi non vende a prezzi politici o accumula scorte nella speranza che il governo permetta di vendere a un prezzo superiore a quello della produzione si trova spesso accusato di essere uno speculatore e la sua azienda viene sequestrata e nazionalizzata. Chavez ha nazionalizzato fattorie e società di telecomunicazioni, compagnie di trasporti e fabbriche di cemento. In pochi anni il Venezuela ha scalato le classifiche dei Paesi dove è meno sicuro fare affari a causa del rischio di vedersi espropriata la propria azienda.
Quando Chavez morì, nel 2013, la sua eredità non era ancora del tutto chiara. Il Guardian pubblicò un articolo che conteneva luci ed ombre sulla figura del «Comandante», che era riuscito a ridurre in maniera sensibile la povertà, ma che aveva fatto precipitare il Paese in una spirale di inflazione e criminalità. I risultati delle sue politiche si sono visti con maggiore chiarezza con il suo successore designato, l’ex autista di autobus e sindacalista Nicolas Maduro, che vinse di pochi voti le presidenziali del 2013. Maduro inaugurò il suo mandato dicendo che Chavez gli aveva parlato dopo la morte attraverso un uccellino e il suo governo è andato avanti con gli stessi toni farseschi.
In economia, Maduro ha adottato e inasprito le politiche del suo predecessore, come ad esempio il controllo sui prezzi, che viene esercitato da una serie di enti dai nomi che ricordano i totalitarismi degli anni Trenta, come la «Soprintendenza per il giusto prezzo», il «Vice-ministero per la suprema felicità sociale» e «l’Organo per la difesa popolare dell’economia». Il controllo sui cambi è stato stretto ulteriormente e oggi l’unico modo per procurarsi dollari americani con cui acquistare all’estero beni essenziali è partecipare alle «aste segrete» del governo, a cui però in genere sono invitati solo gli alleati del regime. Per gli altri, l’unica alternativa è procurarseli sul mercato nero, a un prezzo decine di volte superiore al cambio stabilito ufficialmente. Nell’estate del 2014 migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la situazione economica in rapido peggioramento. Maduro ha risposto con estrema durezza e negli scontri 43 persone sono state uccisi e altre migliaia sono rimaste ferite o sono state arrestate.
Nel frattempo la situazione è continuata a peggiorare. Il Paese ha avuto nel 2015 la terza recessione peggiore del pianeta, con un calo del PIL del 18 per cento e secondo l’FMI l’inflazione potrebbe arrivare al 725% entro la fine del 2016. L’economia è paralizzata e, con il crollo del prezzo del petrolio, la PDVSA non è più in grado di alimentare nemmeno l’ombra delle ambiziose politiche sociali ideate da Chavez. Nel Paese manca di tutto, soprattutto la carta igienica, che dal 2013 è divenuta quasi un simbolo della tragedia venezuelana, come racconta bene una storia grottesca, raccontata a metà maggio dal settimanale The Atlantic.
Circa un anno fa, un imprenditore si è trovato sotto pressione da parte dei sindacati perché nei bagni della sua azienda non c’era più carta igienica. Si tratta di una violazione dei contratti nazionali del Paese che in Venezuela può portare all’arresto e al sequestro dell’azienda. Quando l’imprenditore è riuscito faticosamente a procurarsene alcuni rotoli negli spacci pubblici, i suoi dipendenti l’hanno fatta rapidamente sparire: «Comprensibilmente – scrivono gli autori dell’articolo – perché per loro era altrettanto difficile trovarla». Allora l’imprenditore si è rivolto al mercato nero, dove circola ogni sorta di prodotto a prezzi astronomici. Ma non appena il carico di carta igienica è arrivato in azienda, è comparsa anche la polizia. Adesso, concludono gli autori, l’imprenditore rischia di andare in carcere per aver accumulato illegalmente una scorta di carta igienica. Gli autori, entrambi venezuelani, concludono dicendo che è una storia che sembra divertente, ma che in Venezuela, oramai, «non c’è più nulla da ridere».