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 2016  maggio 29 Domenica calendario

Intanto le banche americane si stanno mangiando le banche europee

«Siamo in Siberia. Si muore di freddo, il terreno è brullo e ci sono pochissimi alberi». Il paragone tra banche in difficoltà e aride steppe è di Martin Taylor, uomo brillante e esponente di punta della Banca d’Inghilterra.
Sarebbe
facile dire che Taylor, ex giornalista, abbia esagerato con la metafora, ma nella City di Londra, a Francoforte e a Zurigo si respira un clima veramente polare. Dopo il caos del 2008, le regole toste del dopo crisi e le ammende salate del dopo-dopo-crisi, una parte importante del settore bancario europeo sembra essere in via d’estinzione.

Non parlo delle piccole banche di provincia – le Sparkassen tedesche, le «building societies» inglesi e neppure le casse di risparmio italiane (anche se lì, si dovrà fare pulizia per anni). La fetta di banche dal futuro più incerto è in cima alla piramide: l’alta finanza europea che un tempo faceva concorrenza, e spesso paura, ai giganti americani.
Oggi, le banche d’affari d’oltre-oceano stanno facendo piazza pulita in Europa. Dalle loro basi londinesi, Goldman Sachs e Morgan Stanley, J.P. Morgan e Merrill Lynch stanno approfittando dei molti e variegati problemi dei concorrenti autoctoni per trasformare il mondo dell’investment banking in un prodotto «100% Made in the Usa».
Lo ha ammesso pure Sergio Ermotti, capo della svizzera Ubs, a questo giornale. «La verità è che le banche europee sono quasi sempre troppo piccole per sopravvivere. Stanno diventando irrilevanti dal punto di vista globale, mentre quelle americane continuano ad avere una grande forza».
Quattro delle cinque banche d’affari che fanno più soldi in Europa sono americane, secondo la società di consulenza Coalition. L’unico profeta in patria è Deutsche Bank ma il gigante tedesco ha problemi seri, soprattutto con la giustizia americana.
Che cosa è successo ai «campioni europei» della finanza di un tempo? Alle inglesi Hsbc e Barclays, alle svizzere Ubs e Credit Suisse e alle tradizionali esponenti finanziarie del potere geopolitico francese, la Bnp Paribas e la Société Générale?
Un po’ di tutto. Errori strategici del management, multe salatissime da parte di accaniti regolatori americani intenti a «far pagare» alle banche il costo della crisi del 2008, e regole europee che, a detta dei banchieri, sono più ardue di quelle Usa.
Bisogna dire che molte delle beghe sono stati autogol, molte altre non sono problemi esclusivi alle istituzioni europee – le multe alte le hanno pagate pure J.P. Morgan e compagnia – e le lamentele sulle regole non sono tutte oggettivamente vere.
Ma qualunque siano le ragioni, la realtà è che gli investitori e i clienti stanno disertando l’Europa della finanza per farsi servire dai signori americani in doppiopetto (le signore sono sempre poche).
La vera questione è se a noi cittadini europei ciò debba interessare e se le autorità di settore o addirittura i governi debbano intervenire per aiutare le banche «nostrane». C’è una scuola di pensiero che dice di no: nel settore più darwinista del mondo, che male c’è se le forze del libero mercato spingono Wall Street a colonizzare il vecchio Continente?
È un tema che sento spesso quando sono nei piani alti del grattacielo di J.P.Morgan a Canary Wharf e o nell’elegante palazzotto di Goldman Sachs a Fleet Street, vicino ai vecchi edifici dei giornali. Lì i signori della finanza americana espatriati a Londra mi ricordano sempre che impiegano migliaia di persone in Europa e solo una piccola parte hanno il passaporto dello Zio Sam. E questo è vero pure per i capi – dall’inglesissimo Michael Sherwood di Goldman al simpatico argentino Daniel Pinto di J.P. Morgan.
E se, alla fine, grandi multinazionali quali Vodafone, Vivendi o l’Eni hanno bisogno di servizi finanziari avranno pure il diritto di comprarli dove vogliono, come noi tutti paghiamo centinaia di euro per l’elegante iPhone e non i telefonini della Nokia. «Il servizio è quello che conta. La provenienza geografica è irrilevante», mi ha detto un dirigente di una banca Usa con logica telegrafica e sicura di sé.
È vero che, come le linee aeree, non è obbligatorio che ogni paese abbia una banca internazionale.
Ma vale la pena soffermarsi un attimo sulle conseguenze di questo trend.
Le banche europee la considerano quasi una questione di vita o di morte. Lo ha spiegato Jes Staley, l’amministratore delegato (americano) della Barclays: «I politici e i regolatori europei devono decidere e devono decidere in fretta. Devono dirci se gli importa chi controlla i flussi di capitale in Europa», ha detto Staley ad una platea di Bruxelles un paio di settimane fa. «Siamo sull’orlo del dominio americano e se continuiamo così ci troveremo in una situazione rischiosa, in cui i mercati del capitale europeo sono controllati da banche che non sono di qui».
La domanda è chiara ma la risposta non è semplice. I banchieri, con tipico amore dei due pesi e delle due misure, vorrebbero un intervento diretto dei regolatori o persino dell’Unione Europea per «fermare» le banche americane. Ovvero uno di quegli atti «dirigisti» che di solito attaccano come «ingiusta politica industriale» o, più semplicemente «socialismo» quando non gli fa comodo.
Ci sono altre possibilità ma nessuna è indolore. Se veramente l’Europa volesse un «campione bancario», potrebbe incoraggiare fusioni tra i suoi giganti della finanza. Deutsche Bank e Barclays o Unicredit, Ubs e Credit Suisse, Hsbc e Standard Chartered, di alleanze anti-Usa se ne possono immaginare molte. Ma né la Bce né i governi nazionali – la prima per ragioni di sicurezza del sistema finanziario e i secondi per preservare il potere locale – vogliono sanzionare affari di questo tipo.
Mario Draghi e il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, i due regolatori più importanti d’Europa, stanno mettendo pressione sui tecnocrati di Bruxelles e Basilea perché si diano una calmata e mettano fine allo stillicidio di nuove regole che riducono gli utili delle banche. E se l’economia dell’Ue riprende a crescere, le istituzioni «locali» ne beneficeranno più degli ospiti americani.
Ma la vera soluzione deve venire dalle banche stesse. Ermotti, Staley e i colleghi lo sanno: devono mettere ordine in casa, scegliere le strategie giuste, tagliare i costi e competere con gli americani come un tempo.
Per uscire dalla freddissima Siberia del dopo-crisi, le banche europee dovranno farsi forza e utilizzare i propri mezzi, senza sperare nel deus ex machina dei governi.