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 2016  maggio 28 Sabato calendario

«Il giorno in cui clonai Dolly». Nel 1996 in Scozia nasceva la pecora più famosa del mondo. Vent’anni dopo lo scienziato Ian Wilmut ricorda quei giorni e quella rivoluzione

Potrà sembrare strano, ma quando nacque Dolly io ero impegnato a curare il giardino. Era il luglio del 1996 e sapevamo che se quell’agnellina fosse sopravvissuta sarebbe diventata il primo animale nella storia clonato a partire da una cellula adulta. Avevo dato istruzioni che dovevano essere presenti al parto solo le persone strettamente indispensabili e mi attenni alla regola da me stesso fissata.
Il mio collega Keith Campbell, che ebbe un ruolo importantissimo, era in vacanza. Quando tornò, ce ne andammo tutti a cena. Il circo dei media arrivò molto dopo, nel febbraio dell’anno seguente, quando lo studio venne pubblicato.
A distanza di vent’anni, può sembrare semplice riepilogare gli eventi secondo una sequenza temporale chiara, un passo dopo l’altro. Ma la faccenda è più ingarbugliata di così. Dolly ha modificato un aspetto fondamentale della nostra concezione dello sviluppo biologico, ma la sua nascita non rappresenta una cesura netta fra tutto quello che è venuto prima e la nuova era che è cominciata dopo.
Sbarcai in quello che sarebbe diventato l’Istituto Roslin di Edimburgo dopo aver condotto ricerche in biologia riproduttiva all’Università di Cambridge. Lì avevo messo a punto dei metodi per congelare embrioni di mucca, che avevano portato alla nascita di Frostie, il primo vitello nato da un embrione precedentemente congelato, nel 1973. Intorno al 1980, la priorità della ricerca era diventata la genetica molecolare, che includeva le modificazioni genetiche. Speravamo di riuscire a introdurre in cavie animali mutazioni che portassero alla produzione di certe proteine, come gli anticorpi, utilizzabili a scopi terapeutici.
Nel 1981 era stato pubblicato uno studio che dimostrava che era possibile clonare topi mediante trasferimento nucleare, che significava rimuovere il nucleo da un ovulo non fecondato e sostituirlo con il nucleo di una cellula embrionale allo stadio iniziale. Quello studio suscitò la nostra attenzione, ma i tentativi di replicarlo non ebbero successo. Poi, però, nel 1986, un ricercatore di nome Steen Willadsen riuscì a effettuare il trasferimento nucleare da una cellula embrionale nelle pecore. E in una conversazione al tavolino di un bar, l’anno seguente, scoprii che usando questo metodo era riuscito anche a produrre vitelli vivi. Andai quindi a incontrare Willadsen, che si dimostrò estremamente generoso nel descrivere le sue ricerche, e tornai a Edimburgo con l’idea di lavorare sulla clonazione mediante trasferimento nucleare.
L’anno prima di Dolly clonammo due agnelli – Megan e Morag – prelevando i nuclei da cellule embrionali che avevano cominciato a differenziarsi. A quel punto il nostro prossimo obbiettivo diventò capire se potevamo usare cellule a uno stadio ancora più avanzato, prese cioè da individui adulti.
Ogni esperimento necessitava di un’enorme quantità di pecore, per prelevarne gli ovuli o per usarle come madri surrogate, e non potevamo farli tutti in un colpo solo. A quel punto, però, l’azienda con cui collaboravamo, la Ppl Therapeutics, ebbe dei problemi con le linee cellulari e fu costretta a smettere di lavorare per un certo periodo. Questo significava che improvvisamente ci ritrovammo con un gran numero di ovini a disposizione. Intorno al Natale del 1995 ci mettemmo seduti a discutere su cosa fare con queste pecore: fu allora che pensammo all’esperimento di Dolly.
Usando cellule prese da tessuti mammari adulti già sottoposti a coltura e congelati dalla Ppl, effettuammo il trasferimento nucleare in 277 ovuli. Solo 29 embrioni furono impiantati in madri surrogate. Da questi, nacque soltanto Dolly.
Era una domenica di febbraio del 1997 quando la notizia esplose. Ci aspettavamo un certo interesse da parte dei media, ma il clamore superò ogni nostra previsione. Il lunedì dopo il parcheggio era già ingombro di furgoni satellitari delle televisioni. Eravamo consapevoli di aver aperto la porta a qualcosa di grosso, ma non sapevamo realmente quali sarebbero state le possibilità. Era entusiasmante pensare alle enormi potenzialità di questa tecnica per la clonazione terapeutica (produrre tessuti specifici per trapianti, ad esempio). Ma era entusiasmante anche perché modificava la nostra visione della biologia.
Naturalmente, quando la notizia si diffuse, il dibattito si concentrò sulla clonazione umana. Io e Keith lo avevamo previsto. A volte lui mi dava un passaggio a casa e durante il viaggio ne discutevamo. Sapevamo che la clonazione umana sarebbe potuta diventare possibile, e che dopo Dolly ci avrebbero domandato di questa possibilità. Eravamo d’accordo: l’idea non ci piaceva.
Quello era l’aspetto della storia che più di tutti alimentava la tempesta mediatica. Ricordo che dicevo a mia moglie: «Non ti preoccupare, vedrai che per l’autunno sarà tutto finito». Ero un pazzo a pensarlo.
Poco dopo la pubblicazione dello studio, Keith lasciò l’istituto. Negli anni seguenti, tutti e due partecipammo a una quantità colossale di eventi e conferenze, e scrivemmo perfino un libro insieme. Dolly ha creato molte opportunità, ma qualcuno ha avuto la netta percezione che non siano state ripartite equamente, in particolare fra me e Keith. Per le ricerche sulla clonazione e i miei studi precedenti, io sono stato ammesso nella Royal Society e in seguito sono stato addirittura insignito del titolo di baronetto. A qualcuno questo non è andato giù. Quando ripenso a quello che ha realizzato la nostra équipe, mi viene da considerare che ancora non abbiamo veramente una comprensione chiara dei meccanismi biologici che ne stanno alla base. Pensavo che a questo punto ne avremmo saputo di più, e – per quel che vale – penso ancora che un giorno ne sapremo effettivamente di più. La ricerca sulle cellule staminali, che ha fatto leva sugli esperimenti di clonazione, sull’esperimento di Dolly, comincia ad avere effetti. Al momento sono in corso esperimenti clinici. La promessa di quello che Dolly rappresentava comincia a concretizzarsi.
(©2016 New Scientist.
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Traduzione di Fabio Galimberti
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