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 2016  maggio 28 Sabato calendario

La faccenda dei tassi d’interesse Usa, spiegata bene

Il messaggio lanciato ieri sera dal presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha confermato le aspettative dei mercati finanziari: il «rialzo graduale» dei tassi americani comicerà a luglio.
Le probabilità di una stretta monetaria Usa già a giugno, che avverrebbe a pochi giorni dal referendum britannico su Brexit, sono considerate minime. Ma a luglio le attese sul mercato dei futures indicano probabilità ben superiori al 50%. E anche la maggioranza degli economisti (come quelli di Commerzbank, di Intesa Sanpaolo o di Lombard Odier) punta su un rialzo di mezza estate. Del resto le condizioni economiche in America, ma anche quelle internazionali, ormai lo consentono. Eppure, pur nel consenso unanime sulla necessità di questo nuovo passo verso la normalità, resta un dubbio guardando al lungo termine: può un mondo iper-indebitato in dollari sostenere un aumento del costo del denaro in dollari? Può un mondo così anormale, tornare davvero alla normalità?
Perché la Fed può alzare
I motivi per cui la banca centrale americana ora può permettersi di aumentare il costo del denaro sono vari. Innanzitutto la crescita economica Usa è ormai sufficientemente robusta da non giustificare più tassi “eccezionali” tra lo 0,25% e lo 0,50%. Il Pil nel primo trimestre (rivisto proprio ieri) è cresciuto dello 0,8% e gli economisti si aspettano che il secondo trimestre risulti ancora più scattante: Luca Mezzomo di Intesa Sanpaolo prevede per esempio una crescita intorno al 2,5-3%, in linea con molte case d’investimento. Il mercato del lavoro – come dice la Yellen – «è davvero migliorato», sebbene resti afflitto da sotto-occupazione e da salari troppo bassi. E anche l’inflazione non giustifica più tassi troppo bassi. Insomma: sebbene l’economia Usa presenti ancora delle fragilità, è fuori dubbio che l’andamento congiunturale non giustifichi più tassi eccezionalmente bassi. Sarebbe come continuare a somministrare antibiotici a un paziente guarito da anni.
Anche le condizioni internazionali sono in apparenza migliorate. Gioca per esempio a favore di un rialzo dei tassi Usa la ripresa del prezzo del petrolio, che ormai viaggia intorno ai 50 dollari. Questo da un lato potrebbe sostenere l’inflazione, dall’altro riduce le pressioni sulle società produttrici di oro nero e sui Paesi emergenti. Per le indebitatissime aziende americane attive nello «shale oil» si tratta di un piccolo aiuto: il rincaro del petrolio può permettere loro di aumentare i ricavi e di rendere più sostenibile il debito, anche se resta troppo elevato. Il petrolio a 50 aiuta anche le aziende produttrici dei Paesi emergenti, anch’esse molto indebitate in dollari. Questo riduce (ma purtroppo non annulla) gli effetti collaterali di una “stretta” monetaria Usa.
Ma anche una ritrovata (ammesso che duri) serenità in Cina gioca a favore del rialzo dei tassi Usa. Gli ultimi dati dimostrano che la Cina ha smesso di bruciare riserve valutarie: questo significa che le pressioni al ribasso sullo yuan sono terminate. Questo lascerebbe intendere – sottolineano gli strategist di JCI Capital – che ormai le «dinamiche dello yuan siano sotto il completo controllo delle autorità cinesi».
Perché potrebbe aspettare
Se tanti elementi sembrano spianare la strada alla Fed, non bisogna dimenticare che un rialzo dei tassi in un mondo iper-indebitato potrebbe non essere indolore. Un primo scoglio che impensierisce gli economisti è il referendum inglese per l’uscita dall’Unione europea: se dovessero vincere i «sì», potrebbe tornare un bel po’ di turbolenza sulle Borse. Per questo gli addetti ai lavori puntano più su luglio che su giugno per il prossimo rialzo dei tassi Usa: perché a giugno, alla vigilia del referendum inglese, la mossa potrebbe rivelarsi azzardata.
Ma questo è solo rumore di fondo. I problemi veri, che potrebbero riaffiorare con l’aumento del costo del denaro, sono altri. L’eccesso di debito contratto in dollari dalle imprese di molti Paesi emergenti, per esempio: se non si sono coperte dal rischio tassi attraverso derivati, l’aumento del costo del denaro potrebbe far male a molti. C’è poi la Cina, anch’essa con aziende piene di debiti. E ci sono anche le aziende Usa dello «shale oil», troppo indebitate per essere al riparo dalla stretta monetaria. Infine c’è l’aspetto valutario: già ieri, alle parole della Yellen, il dollaro ha reagito con un corposo rialzo. E questo potrebbe tornare a pesare sull’economia Usa. Insomma: la normalizzazione dei tassi non sarà una passeggiata. Ma un cosa è certa: per quanto piena di ostacoli, va intrapresa prima che sia troppo tardi.