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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

Come si scrive di sport lo spiega bene Sandro Veronesi

Lo scrittore che ha scritto meglio di sport è Osvaldo Soriano (seguito da Norman Mailer). Soriano, come La settimana enigmistica, poteva vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Senza mai scimmiottarlo, però sempre tenendone presente la lezione, Sandro Veronesi è lo scrittore italiano che ha scritto di sport con la medesima felicità di Soriano. E con lo stesso orecchio, quello che ti segnala quando è il momento, raccontando storie di sport, di passare dalla letteratura al giornalismo, e quando è il momento di ripassare dal giornalismo alla letteratura. Che è l’equilibrio che bisogna saper rispettare. Non è facile, è come fare il surplace nel ciclismo su pista.
Il più sorianesco dei racconti raccolti da Veronesi in Un dio ti guarda (La nave di Teseo) è, lo si capisce fin dal titolo, Acqua distillata uruguayana. Il protagonista, Walter Garcia Benvenuto, Veronesi lo conobbe perché era il factotum (autista, scout, archivio ambulante) dei giornalisti sportivi italiani inviati in America Latina. Da giovane, quando portava i baffetti neri alla Clark Gable, Walter Garcia Benvenuto giocava da laterale sinistro nel Liverpool di Montevideo. Senza infamia e senza lode. Eppure si era guadagnato l’amicizia e il rispetto di campioni come Ghiggia e Schiaffino, che avevano avuto un destino diverso (e quanto diverso!), ma in cuor loro sapevano che avrebbero potuto avere la sorte del collega più sfortunato (la gloria, a volte, è, come si dice dei calci di rigore, una lotteria). Chiusa la stagione agonistica, Garcia Benvenuto provò la carriera di allenatore. Pure stavolta senza infamia e senza lode. Il suo sogno nel cassetto era di fare il mister in Italia. Anche in serie C, perché non contava da dove cominciare, avrebbe saputo lui come farsi valere. Un sogno che, forse, dura ancora.
Ci sono nel calcio misteri più impenetrabili dei segreti di Fatima. Veronesi affronta quello che è, probabilmente, il più arcano di tutti. Per quale oscura ragione uno sportivo professionista, che potrebbe tranquillamente giocare titolare altrove, sceglie di fare il secondo portiere, di non scendere mai in campo e di accontentarsi di passare in panchina interi campionati? È un grande enigma. Perché un ragazzo sano (i calciatori, mai dimenticarlo, sono ragazzi e, forse, lo rimangono in eterno) decide di non prendere parte al gioco? Si rifugia in un ruolo, quello di fare spogliatoio, che non è previsto dagli schemi? In quella parte un po’ da prete, un po’ da strizzacervelli, un po’ da angelo custode? Di che cosa si tratta, di spirito di servizio? Vocazione al martirio? Desiderio di abnegazione? Oppure è una complicazione perversa della sindrome di Wakefield, il personaggio di Hawthorne che preferì sparire dalla sua vita per osservarla di nascosto?
Lo sport più appassionante da raccontare è, per motivi evidenti, il pugilato. Ogni scrittore ha il suo pugile e ogni pugile ha il suo scrittore. Norman Mailer non sarebbe stato completamente Norman Mailer se non avesse narrato Cassius Clay/Muhammad Ali. E Ali non sarebbe stato completamente Ali se non fosse stato narrato da Mailer.
Il pugile di Veronesi è Atomic Bull che ebbe il suo momento di gloria quando, da sparring partner, stese al tappeto Mike Tyson, impresa mai riuscita a nessuno allora e ritenuta da tanti impossibile. Passato dal ruolo di allenatore a quello di titolare, Atomic Bull (Oliver McCall) si perse tra alcol e droga. Poi si ripulì e salì sul ring per l’incontro che doveva riscattarlo agli occhi del mondo. Il primo match della sua nuova vita fu anche l’ultimo. Davanti al temibile avversario, il Toro Atomico (ormai denuclearizzato) prese a correre lungo il ring per sottrarsi ai colpi dell’altro pugile tra la vergogna dei suoi secondi e l’ira sghignazzante del pubblico. A incontro finito, Atomic Bull disse che la sua era stata una tattica nuova non perfettamente compresa dall’arbitro che lo squalificò.
Se lo leggete bene, Un dio ti guarda è un’autobiografia per interposti campioni, quasi tutti juventini, la squadra del cuore dello scrittore. Sono stati loro i compagni più grandi, i personaggi guida del suo romanzo di formazione. Un esempio. Per amore di Sandro Salvadore, il libero della Juventus di quando era piccolo («Mi commuoveva la sua bellezza, lo sguardo gettato in alto nelle figurine»), Veronesi arrivò a cambiarsi il nome da Alessandro, come lo chiamavano in famiglia, a Sandro. Si rifece da solo il battesimo.
Ed ecco la scena fondamentale di questo romanzo di formazione. Veronesi era un bambino quando il padre gli regalò un bel libro illustrato, si intitolava «Juventus fidanzata d’Italia». Tanto tempo dopo, lo scrittore ritrova il libro, ormai dato per perso, sgomberando la casa dei suoi genitori dopo la loro morte. Lo apre, lo sfoglia e rivede il padre il giorno in cui gli donò quella fidanzata: «E mi viene da piangere a pensare che aveva quarantadue anni, e io ne avevo dieci, e la Juve aveva vinto 13 scudetti. Cioè, doveva ancora succedere tutto, eppure era già successo tutto».