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 2016  maggio 24 Martedì calendario

Che aria tira a Bologna a dieci giorni dal voto

Nella pigra capitale del buon vivere, l’unica incognita è se Virginio Merola sarà riconfermato sindaco il 5 giugno o invece due settimane dopo, il 19. Casomai non dovesse farcela direttamente al primo turno, vincerebbe comunque nel ballottaggio perché questo sessantenne amministratore Pd che non fa scintille (però nemmeno danni) ha di fronte a sé 8 avversari e un solo vero competitor: il partito dell’astensione. In altri momenti, magari, il grillino Massimo Bugani avrebbe potuto dargli filo da torcere; e perfino la candidata imposta dalla Lega ai moderati, Lucia Bergonzoni, se la sarebbe forse giocata meglio se sotto le Due Torri ci fosse davvero voglia di girare pagina, come quando piombò Guazzaloca. Ma non sembrano questi i sentimenti di adesso. Oggi, sul desiderio di cambiare, vince la paura di rischiare.
Dorata mediocrità
A sentire chi la conosce come le proprie tasche, per esempio il professor Arturo Parisi, ex ministro e politologo, Bologna vive avvolta in un’«aurea mediocritas», sia pure nel senso nobile e squisito di Orazio: quale lento commiato dall’età dell’oro che ne aveva fatto un modello di buongoverno. Sindaci come Fanti, come Zangheri, come gli stessi Imbeni e Vitali non se ne fabbricano da un pezzo; e d’altra parte non esiste più nemmeno il Pci che qui spadroneggiava. Estinto come accadde poi per l’Ulivo di Prodi. Il Pd, più che un partito, è un suk dove incontrarsi e cercare le linee mediane. Eppure, a chi arriva da Roma, lo standard cittadino appare così alto da fare invidia. Mafia Capitale qui non esiste, le strade sono stranamente prive di buche. Semmai un po’ di movida nella zona universitaria. Qualche accoltellato, alcune case occupate e un tot di microcriminalità che gli abitanti storici collegano all’invasione dei «forestieri», immigrati dall’Africa e dal Sud, soprattutto in centro. Come cantava Guccini (1981), i bolognesi se esistono «ormai si son persi, confusi e legati a migliaia di mondi diversi». Traballa l’impero economico delle Coop, ma intanto la disoccupazione sta ai minimi nazionali (7,2 per cento contro l’11,9 della media italica). Potrebbe andare peggio, molto peggio. E allora, perché cambiare? Il continuismo è l’inerzia di una città che già nel 1985 il cardinale Biffi dipingeva come «sazia e disperata». Oggi Bologna non è più sazia e forse nemmeno disperata, ma aggrappata a se stessa, quello sì.
Effetto noia
L’altra faccia della continuità si chiama immobilismo. Da cui derivano strani paradossi. Esempio numero uno: proprio nella città che aveva avuto fior di assessori-urbanisti (Campos Venuti, Cervellati), che aveva saputo inventare la Tangenziale fiore all’occhiello in tutta Europa, adesso non si riescono a mandare avanti le modernizzazioni indispensabili tipo il Passante Nord. Salta fuori puntualmente qualche intoppo di natura politica. Basti aggiungere che c’è voluto il personale intervento di Renzi per aprire la Variante di valico dell’A1, altrimenti stavamo ancora lì. Secondo caso di stagnazione: da trent’anni almeno, i nomi che contano in città sono perennemente gli stessi, incominciando dall’inossidabile ex rettore Fabio Roversi Monaco. Il suo successore Francesco Ubertini ha tentato di farsi ammettere nella vera cassaforte della città, il comitato della Fondazione Carisbo che dispone di un «tesoretto» da mezzo miliardo, e sembrava dovesse farcela; ma a voto segreto è stato sconfitto con gravi perdite (e discreto scandalo). Nella Bologna del potere vero, le consorterie resistono, il nuovo indietreggia. Unipol spalleggia nientemeno che Mediobanca per bloccare la scalata di Cairo al «Corsera». I partigiani dell’Anpi bolognese guidano la resistenza ortodossa e un po’ bigotta contro la nuova Costituzione renziana nel nome di quella che c’è. Col risultato che, per chi giudica con il dovuto distacco, la punta più avanzata e «visionaria» della città rimane un signore di anni 96, Marino Golinelli, imprenditore farmaceutico e mecenate. È sempre Guccini che canta: «Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto, rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato...».