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 2016  maggio 23 Lunedì calendario

Gli aiuti umanitari non servono

Non sono modeste le ambizioni del primo Vertice umanitario mondiale che si apre oggi a Istanbul. Si tratta niente meno che di un impegno ad «agire per prevenire e ridurre la sofferenza umana» – un programma che sintetizza gran parte della stessa ragion d’essere delle Nazioni Unite, che hanno preparato e convocato il vertice.
Che ci sia un drammatico bisogno di questo impegno e soprattutto di una presa di coscienza che sia capace di tradursi in azione, non può certo essere dubitato. Non ci possono certo consolare le statistiche secondo cui il nuovo secolo stia facendo registrare conflitti che producono molte meno vittime di quelli che hanno caratterizzato, con due guerre mondiali e la Shoah, il tremendo Ventesimo secolo.
È legittimo sperare che le singole componenti di quella «guerra mondiale a pezzi» di cui ha parlato il Papa non finiscano per saldarsi in una conflagrazione globale, ma anche senza questa prospettiva apocalittica la violenza armata sta devastando vite umane, comunità e territori. Se ci chiediamo perché i conflitti del nostro tempo producano – anche quando apparentemente si potrebbero definire come locali – una così profonda, estesa e contagiosa sofferenza, la risposta va ricercata nella loro perversa interconnessione. La guerra “classica” – quella i cui contendenti erano Stati- nazione, che veniva dichiarata, che vedeva eserciti contrapposti schierarsi in campo – ormai è caduta in desuetudine. Ma imperversa una concatenazione di violenza organizzata che, in un micidiale continuum, va dagli scontri tribali a quelli settari, dalla contrapposizione fra centralismi e separatismi fino alle spinte geopolitiche di singoli Stati e al ruolo delle alleanze militari. In questo senso il conflitto è nello stesso tempo multiforme e globale, e soprattutto sfugge a quelle mediazioni che ( al tempo di quella Guerra Fredda che corre il rischio di essere rimpianta) fornivano comunque la possibilità di una ricomposizione.
E non basta. Il dramma del conflitto e delle sue conseguenze in termini di sofferenze umane è reso oggi più grave da altri fattori. È significativo che uno dei punti principali dell’agenda del vertice di Istanbul sia il rispetto delle norme che regolano la guerra, quel “diritto umanitario” che, a partire dal XIX secolo, ha introdotto limiti sia per quanto riguarda gli strumenti che gli obiettivi dell’azione militare. Sarebbe falso sostenere che quell’insieme di norme sia stato sempre rispettato, ma non ci sono dubbi che, soprattutto grazie al deterrente della reciprocità, gli Stati si siano attenuti a molte di quelle limitazioni. Le norme ( in particolare quelle delle Convenzioni di Ginevra e dell’Aja) sono tuttora valide, ma oggi subiscono una vera e propria erosione proprio in relazione al prevalere di guerre non dichiarate e al proliferare di milizie, gruppi terroristi e bande armate di vario tipo che – a differenza dagli Stati, il cui arbitrio trova almeno un limite nelle esigenze propagandistiche – non conoscono nemmeno quelle regole e rivendicano il diritto a perseguire i propri fini senza limiti e senza condizionamenti. Ma l’erosione si verifica anche quando sono gli Stati a mettere in atto azioni militari in violazione delle norme sull’uso della violenza armata, in particolare quelle che dovrebbero imporre una distinzione fra combattenti e civili.
Si tratta dell’effetto di un doppio fenomeno: da un lato la presenza del terrorismo ( fenomeno drammaticamente reale, ma la cui definizione tende ad essere applicata indiscriminatamente a insorti e guerriglieri) – un nemico nei cui confronti gli Stati sostengono che non valga alcuna regola, alcuna limitazione. Dall’altro vi è l’impiego di sistemi d’arma avanzati come i droni: armi che, nonostante le loro vantate capacità di effettuare azioni estremamente mirate, finiscono per produrre numerose vittime civili.
L’insensibilità alle sofferenze umane prodotte in luoghi lontani è ben nota, ed è stata più volte condannata e contrastata sul piano etico. La novità del nostro tempo è che è venuto a cadere lo stesso concetto di “lontano”, nel senso che chi ha avuto l’esistenza devastata e la stessa sopravvivenza minacciata oggi è in grado di mettersi in marcia verso una speranza di salvezza, e si spinge fino ai territori dove i governi non sganciano bombe, dove i militanti di feroci cause settarie non tagliano gole, dove le case non vengono bruciate e le donne non vengono stuprate.
Il conflitto sarà al centro dei lavori del Vertice, ma non sarà il suo unico tema. Non si dovrebbe mai perdere di vista, e le Nazioni Unite certo non lo fanno, che la sofferenza umana non è solo prodotta dalle guerre, ma anche da una fame e da una estrema miseria che spesso non sono causate da carenze produttive o di mercato, ma da sistemi politici basati su ingiustizia, corruzione, e su quella feroce repressione che è l’unico modo in cui classi politiche squalificate e fallite possono mantenere il proprio potere.
La dimensione umanitaria s’intreccia qui con quella dello sviluppo e con la stessa politica – un intreccio di tale complessità e problematicità da sollevare più di un dubbio sulla possibilità di affrontarlo anche in modo sommario nei due giorni del vertice. Senza parlare di quella che è con ogni evidenza la sfida tendenzialmente più drammatica per la stessa sopravvivenza degli umani: quella di una crisi ambientale che incide in modo crescente non solo sull’economia, ma sulla stessa abitabilità di vaste zone del pianeta.
Sono problemi drammatici, e verrebbe quindi istintivo salutare il vertice di Istanbul con un plauso e un sincero augurio di buon lavoro. Ma fa pensare il fatto che una delle organizzazioni non governative più coraggiose e più credibili, Medici senza frontiere, non sarà presente a Istanbul. Anzi, Msf ha denunciato il vertice come “foglia di fico” che punta a nascondere le violazioni delle norme umanitarie di cui gli Stati, e non solo i guerriglieri e i terroristi, si rendono responsabili. Il riferimento è ai ripetuti attacchi contro ospedali dell’organizzazione, in particolare a Kunduz e ad Aleppo, ma la dura critica dei Medici senza frontiere va oltre i casi che li riguardano e tocca un punto drammaticamente reale: la scarsa credibilità di dirigenti politici che, riunendosi periodicamente al massimo livello in contesti solenni, approvano dichiarazioni e assumono impegni che non sono autenticamente intenzionati a rispettare.
La contraddizione fra retorica e realtà, gravità dei problemi e irrisoria entità delle soluzioni, minaccia sempre più di svuotare di senso quella governanza globale che costituisce invece l’unica, e ultima, speranza dell’umanità.
(L’autore è diplomatico e scrittore, già ambasciatore in Iran e in India)