Corriere della Sera, 20 maggio 2016
La democrazia e i partiti. Breve analisi di un paradosso
Il conflitto sulla disciplina legislativa dei partiti (su temi quali obbligo di democrazia interna, applicazione del codice civile, proprietà del simbolo), apertosi tra democratici e cinquestelle alla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, ha messo in luce nuovamente un problema costituzionale importante: fino a qual punto può spingersi una legge sui partiti politici? E il problema si riproporrà, perché le molte proposte di legge in corso di esame alla Camera toccano tanti altri aspetti.
Il problema si era già posto alla Costituente. Fu approvata la proposta del socialista Basso, secondo la quale i partiti concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ma fu anche approvato un ordine del giorno del democristiano Dossetti, secondo il quale occorreva successivamente stabilire condizioni e modalità della vita dei partiti, mentre un altro democristiano, Mortati, voleva che il metodo democratico si estendesse anche alla vita interna dei partiti (come fu stabilito per i sindacati).
Dopo la Costituzione, l’impegno non fu mantenuto, con la paradossale conseguenza che i partiti politici, artefici delle leggi, hanno vissuto fuori della legge, come associazioni non riconosciute, dando molto lavoro ai giudici, che hanno dovuto risolvere problemi come quelli del simbolo, delle successioni, delle proprietà dei partiti. Donde un altro paradosso: i partiti, pur svolgendo una funzione pubblica importantissima (determinare la politica nazionale e locale, selezionare il personale dirigente), sono istituzioni private, non riconosciute.
Se nella «Repubblica dei partiti» (secondo la definizione dello storico Pietro Scoppola) questi erano organizzazioni di massa (nel 1947 il Pci aveva due milioni e 250 mila iscritti, la Dc un milione e 200 mila, il Psi mezzo milione), sul finire del secolo scorso i partiti si sono decomposti: dimensioni ridotte (il Pd ha ora circa 300 mila iscritti), governo dall’alto (sul sito di Forza Italia si poteva leggere «il rapporto tra leader e partito è subordinato a quello tra il leader e il corpo elettorale»), vertici esterni alla rappresentanza parlamentare (basti pensare a Berlusconi e a Grillo), scomparsa delle strutture organizzative e territoriali e quindi trasformazione dei partiti – organizzazione in partiti – movimento o persino mere organizzazioni del seguito elettorale.
Ultimo paradosso: i partiti, strumento della democrazia (sono loro che mantengono il rapporto tra elettori ed eletti), hanno bisogno essi stessi che sia assicurata la democrazia al loro interno, per non divenire preda di oligarchie. Ma, per garantire una organizzazione interna democratica, occorre una legge, la cui redazione ed approvazione è nelle mani dei partiti stessi. Una legge che corre su un esile filo, perché, da un lato, non deve interferire eccessivamente con la vita interna dei partiti, che sono e debbono restare libere associazioni, dall’altro deve stabilire un certo numero di «regole del gioco», perché gli associati, i membri dei partiti e i parlamentari da loro designati non siano schiacciati da chi occupa le posizioni di vertice. Da un lato, deve stabilire regole generali comuni a tutti i partiti, dall’altro, non deve imporre una concezione uniforme di democrazia (e, quindi, deve fermarsi a stabilire un minimo comune denominatore di principi quali, ad esempio, trasparenza, partecipazione, tutela delle minoranze, diritti degli iscritti).