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 2016  maggio 18 Mercoledì calendario

Le debolezze dell’export italiano

Dobbiamo già riporre nel cassetto tutti i sogni e le lodi sulle magnifiche sorti del nostro export? Tra i tanti dati sfornati ieri dall’Istat ce n’è uno che equivale a una doccia fredda per il Pil: a marzo ‘16 le vendite all’estero sono calate di 1,5% rispetto al mese precedente e dell’1,1% rispetto al marzo 2015.

La causa prima del dietrofront sta nella contrazione del commercio internazionale e infatti, nel primo scorcio del nuovo anno mentre teniamo le posizioni in Europa, arretriamo nettamente (-5,2%) nei Paesi extra Ue. È evidente che nel mondo il vento non tira più in direzione dell’intensificazione degli scambi: c’è aria di sospetto/antagonismo attorno al negoziato Ttip tra Stati Uniti e Ue, Pechino ha subito il cartellino rosso del Parlamento europeo di Strasburgo che non ritiene quella cinese «un’economia di mercato» e sono ancora in vigore le sanzioni contro Putin. Il resto lo fa il prezzo del petrolio che sta riducendo drasticamente le entrate dei Paesi Opec e diminuisce la propensione dei consumatori a spendere. Il guaio ulteriore però è che a parità di trend (preoccupante) del commercio globale, l’Italia nel marzo ‘16 è calata mentre la Germania ha fatto segnare +1,6% e la Francia +0,2%.
Che fare dunque? Il rallentamento della crescita cinese e la lotta contro la corruzione lanciata da Xi Jinping hanno sicuramente colpito l’export di beni di lusso made in Italy e non si tratta certo di due tendenze effimere. Anzi è facile pensare che siano traiettorie di medio termine con le quali bisogna fare i conti senza coltivare illusioni. Il mercato statunitense resta sempre interessante per i prodotti italiani anche se il dollaro si è leggermente rivalutato (6-7 cent) sull’euro e di conseguenza quest’anno non avremo un replay identico del boom fatto registrare nel 2015. Per alcuni prodotti comunque gli States restano il nostro paradiso se è vero che l’industriale farmaceutico Alberto Chiesi, grande esportatore, richiesto di un giudizio sui mercati migliori ha dichiarato: «Per i farmaci al primo posto ci sono gli Stati Uniti. Al secondo gli Usa. E al terzo idem. Poi viene la Cina». Le speranze dell’export a questo punto si rivolgono a breve in direzione della Russia. La notizia che fa sperare bene è che il premier Matteo Renzi a metà giugno sarà al Forum di San Pietroburgo, una sorta di Davos russa.
L’Italia è il Paese ospite e Renzi sarà l’unico leader straniero a parlare insieme a Vladimir Putin in sessione plenaria. Un trattamento di tutto rilievo. Ciò vuol dire che le sanzioni contro Mosca nate sulla scia della crisi ucraina sono ormai a fine corsa? L’opinione degli addetti ai lavori è che per tutto il 2016 non cambierà niente, ma dal giorno dopo è probabile un’inversione di marcia, una nuova decisione. A pagare l’impossibilità di vendere in Russia è stata soprattutto la nostra industria alimentare di prodotti freschi, che ha perso circa 250 milioni l’anno, ma non è l’unico settore a lamentarsi. Complessivamente il mancato introito è forse inferiore a un miliardo e le quote di mercato lasciate libere dalle merci italiane sono state prese d’assalto da brasiliani, argentini e israeliani. Prima c’erano anche i turchi che poi hanno dovuto battere in ritirata. Non sarà facile riprenderle anche perché nel frattempo questi Paesi hanno pensato bene di investire in reti logistiche e quindi di gettare il seme per una presenza stabile.
Del resto da sempre il nostro export soffre proprio della mancanza di reti, non abbiamo la grande distribuzione generalista francese tipo Carrefour/Auchan o leader di settore come Ikea o Leroy Merlin che possano fare da portaerei per i nostri prodotti e così si va avanti a strappi. E lo stesso Renzi proprio per cercare strade nuove con l’ecommerce e bypassare le reti di distribuzione fisiche ha incontrato a Verona-Vinitaly il numero uno del colosso cinese online Alibaba, Jack Ma. Ma il recupero in Russia è solo legato all’embargo? Purtroppo no, il prezzo del petrolio ha portato con sé una rovinosa svalutazione del rublo che ha quasi raddoppiato il costo delle nostre scarpe e del nostro design e ha visto frenare la crescita di quel ceto medio abbiente che per marcare il suo status sarebbe portato, a Mosca come nelle altre metropoli dei Paesi emergenti, a comprare i prodotti belli e ben fatti del made in Italy.