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 2016  maggio 16 Lunedì calendario

La doppia cittadinanza e il caso di Lucky Luciano

Mi permetta d’integrare, e in parte correggere, la sua risposta al lettore Haffner sulla revoca della cittadinanza. In aggiunta ai casi di alto tradimento nel secolo scorso vi stati molti casi in cui è stata revocata la cittadinanza ai cittadini «naturalizzati», cioè a quelle persone immigrate in altri Paesi che avevano acquisito una nuova cittadinanza senza perdere quella di provenienza. Mi riferisco ai tanti gangster italoamericani riconosciuti colpevoli di reati e considerati «indesiderati» che il governo Usa ha privato della cittadinanza americana e ha rispedito in Italia. Il più famoso di tutti è senz’altro Salvatore Lucania, detto Lucky Luciano, che morì d’infarto all’ippodromo d’Agnano da uomo libero ma non più cittadino Usa. Quindi non si deve considerare la doppia cittadinanza come una conquista definitiva e non vedo perché, se una persona delinque nel Paese d’adozione, non possa essere rispedito al Paese di provenienza dopo aver perso la cittadinanza acquisita. Chi viene per lavorare e rispettare le leggi del Paese d’adozione è ben accetto ma, se delinque, è bene che torni da dove è venuto. Normativa che personalmente mi auguro che possa essere adottata da tutti i Paesi del mondo e mi dispiace che Hollande sia stato costretto a fare marcia indietro sull’argomento.
Roberto Bellei  Caro Bellei,
Non credo che nel caso di Salvatore Lucania si possa parlare di doppia cittadinanza. Era nato in Sicilia nel 1897, il primo di cinque figli, e aveva nove anni quando il padre, minatore in una cava di zolfo, aveva deciso di emigrare negli Stati Uniti con l’intera famiglia. Divenne cittadino americano, quindi, in un un’epoca in cui l’acquisto di una nuova cittadinanza aveva per effetto la rinuncia a quella originale. Non basta. La sua deportazione, nel 1946, fu il risultato di un accordo con le autorità americane. Era in prigione da dieci anni, condannato per numerosi reati a una lunga pena detentiva (da 30 a 50 anni), ma era ancora il più autorevole capo della malavita americana e governava dalla sua cella l’intero sistema di Cosa Nostra. Quando scoppiò la guerra e il Servizio Informazioni della Marina degli Stati Uniti temette che lo spionaggio tedesco potesse manovrare con i suoi infiltrati il sistema portuale di New York, a Luciano fu chiesto di mettere la sua numerosa «famiglia» al servizio del Paese. Più tardi, mentre le forze americane si preparavano allo sbarco in Sicilia, fornì informazioni sulla mafia siciliana e sulle persone con cui sarebbe stato utile stabilire contatti.
Per questa collaborazione fu ricompensato con una sorta di carcerazione privilegiata. Aveva un cuoco personale, fu autorizzato a finanziare la costruzione di una chiesa all’interno del carcere, poté continuare a gestire gli affari della sua organizzazione ed ebbe infine, dopo la guerra, la commutazione della pena: dal carcere alla deportazione. Cercò di resistere, ma dovette accettare e sbarcò a Napoli il 28 febbraio 1946. La deportazione di Luciano in Italia, caro Bellei, mi sembrò una decisione ingiusta e arrogante. Il piccolo immigrato aveva imparato il mestiere del gangster durante il proibizionismo americano, era cresciuto nel mondo multietnico della criminalità americana (vi era anche una mafia ebraica), aveva fatto accordi sottobanco con le autorità americane. A me sembrò allora che le autorità italiane avrebbero potuto e dovuto respingerlo. Ma suppongo che nel 1946 non fosse facile dire di no agli Stati Uniti.