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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

Viviamo in un mondo che aspetta e spera

Le prossime elezioni americane e il referendum costituzionale italiano hanno introdotto una variante nella strategia degli annunci d’interventi militari: “Hurry-up and wait”, affrettati e aspetta. Il 27 aprile, Donald Trump ha definito la politica estera americana un “disastro totale”. Quando sarà presidente pretenderà più soldi per le spese militari. L’America dovrà tornare a farsi rispettare dagli alleati e dai nemici. La Cina dovrà importare di più dall’America. L’islam radicale sarà arrestato, economia e struttura militare saranno ricostruite. La politica estera sarà orientata solo sugli interessi americani. Israele sarà sostenuto e l’Iran contrastato.
Non ci sarebbe da preoccuparsi se gli annunci bellicosi fossero soltanto l’espressione di un uomo. Normalmente il 90% delle velleità di politica estera e di sicurezza dei candidati americani cadono miseramente durante il primo briefing che ricevono dai capi del Dipartimento di Stato, del Pentagono, della Home Security, della Cia e dell’Fbi. Ma se il nuovo presidente si porta dietro una gang di lobbisti e manipolatori come nel caso di George W. Bush, anche il solo 10% è estremamente pericoloso. La rivale Clinton lo sa, si affretta e aspetta.
In vista della prova referendaria, anche da noi ci si affretta per aspettare. Abbiamo promesso forze di ogni tipo in Libia e in fretta. Il governo di Serraj ha però annunciato di voler procedere alla formazione di un nuovo comando militare congiunto incaricato di coordinare i combattimenti contro il presunto Stato Islamico. Le forze regolari e irregolari libiche agli ordini dei vari capi miliziani sono state invitate ad attendere gli ordini di operazione del nuovo comando prima di assumere qualsiasi iniziativa. Non si sa bene chi sarà a capo della nuova struttura e non è escluso che sia il solito amico degli egiziani. L’ordine di “aspettare” sembra voler favorire un accordo di potere interno più che uno sforzo militare coordinato. Sembra anche un invito a “far presto e aspettare” rivolto alle forze inglesi, francesi e americane impegnate sul campo a individuare e battere gli obiettivi più redditizi.
Per l’Iraq, è ormai passato un anno dall’annuncio dell’offensiva su Mosul e sono passati cinque mesi dall’annuncio di un intervento italiano a presidio della diga di Mosul. Siamo ancora ai preliminari e purtroppo la situazione locale non tende a migliorare, anzi. Le condizioni iniziali già disastrose sono peggiorate e quelle politiche ormai sono proibitive. L’ipotesi di mandare 450 uomini a garantire la sicurezza alla italiana Trevi, che si è aggiudicata l’appalto dei lavori di consolidamento del terrapieno della diga, è oggi ancor più peregrina e superficiale.
Si pensava erroneamente che la liberazione fosse vicina, ma la battaglia per Mosul è ancora al livello di mitologia giornalistica. I turchi non se ne sono andati e anzi hanno addestrato una milizia privata di 6500 uomini agli ordini di Atheel al-Nujaifi, esponente di una ricca famiglia di proprietari terrieri di Mosul che hanno già governato la provincia di Ninive e diretto il parlamento di Baghdad prima di essere cacciati per collusione con l’Isis e corruzione. Non è invece in dubbio la liberazione di Mosul dalle mani dell’Isis, né di chi vincerà. L’Isis, come ha sempre fatto, lascerà la città per riparare tranquillamente da qualche altra parte. Il problema è stabilire chi potrà vantarsi di aver liberato la città. Ogni gruppo armato e relati – vo sponsor straniero sta ancora cercando un accordo per spartirsi bottino e potere. Le milizie sunnite sostenute dalla Turchia, le milizie sciite sostenute dall’Iran, le milizie curde sostenute ed equipaggiate dagli americani si stanno contendendo il diritto a entrare in città. Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi non riesce a trovare una mediazione onorevole. Nonostante il supporto americano e iraniano, Abadi può uscire forte mente indebolito dal confronto politico e dalla pressione dei radicali sciiti. Gli stessi generali iracheni non hanno fiducia in lui.
La presa di Mosul potrebbe rivelarsi l’inizio della perdita di Baghdad e dell’Iraq da parte dell’esercito iracheno e del suo attuale governo. Paradossalmente, ma non troppo, lo stallo fa comodo a tutti. Dopo i frettolosi annunci, l’intervento italiano nella situazione degenerata, come oggi si presenta, sarebbe un rischio (elettorale) troppo elevato. E meglio aspettare.
In Siria la strategia dell’attesa si è concretizzata con l’accordo fra russi e americani di un “regime di silenzio”. A tutte le parti è stato ordinato di “far tacere le armi”. Il provvedimento tende a non far fallire completamente il cessate il fuoco rendendo quindi ancora possibili gli aiuti e i corridoi umanitari. A questo regime aderiscono il governo siriano e alcune bande ribelli. Si spera che aspettando tempi migliori fingendo che la tregua regga si possa dar tempo ai mediatori di mettersi d’accordo e far migliorare le cose per davvero. Non sono interessati al silenzio delle armi i miliziani di al Nusra e i combattenti arabo-curdi siriani che di recente si sono scontrati tra loro a Tal Rifaat. E ad Aleppo, la scorsa settimana, si sono avuti centinaia di morti negli scontri a fuoco tra ribelli e forze governative. Al regime del silenzio non aderiscono nemmeno le organizzazioni umanitarie come Medici senza Frontiere e il clero cristiano siriaco. Le loro voci si sono alzate più forti proprio quando le armi sono state invitate a tacere. Sanno che anche le parole sono armi e non hanno né tempo né voglia di aspettare e sperare.