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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

Il bambino che sogna di diventare come Messi ha dovuto lasciare l’Afghanistan. I talebani minacciavano lui e la sua famiglia

Maledetta maglietta. Messi Boy ha dovuto lasciare l’Afghanistan. Fine della favola. Fino a cinque mesi fa nessuno lo conosceva. Adesso rischia di essere rapito. Il padre ha raccontato di aver ricevuto una lettera di minacce firmata dai talebani: «Perché fai giocare a pallone tuo figlio invece di mandarlo alla madrassa a imparare il Corano?».
È diventato una star perché giocava a pallone tra i sassi, avendo sulle spalle un sacchetto di plastica bianco-celeste (i colori dell’Argentina), con quel nome famoso e il numero 10 scritto a pennarello. La foto di un piccolo Messi sgarrupato che fa il giro di Internet scatenando la curiosità di migliaia di persone. Chi è? Dove vive? Quando lo scorso febbraio la Bbc lo trova – grazie alla segnalazione di uno zio emigrato in Australia – il vero Leo si commuove e manda a Messi Boy un paio di magliette autenticate e un pallone, con tanto di dedica. Ma la favola non è finita. Anzi ora ha preso una piega inaspettata, da incubo. La famiglia del piccolo Murtaza Ahmadi è stata minacciata. Troppa notorietà. Invidia. Qualcuno ha telefonato al padre, che come il 70% degli abitanti della provincia di Ghazni fa il contadino: «Oltre alla maglietta ti avranno dato parecchi soldi, vogliamo la nostra parte». Seguono minacce. E così il bambino e la sua famiglia scappano oltre confine, in Pakistan. Ora vivono in otto in una stanza a Quetta, quartier generale dei talebani. Le telecamere di mezzo mondo li inseguono. Ecco Murtaza sulla Bbc, mentre tira calci al pallone in un vicolo e ripete che vorrebbe proprio incontrare il suo idolo, l’asso del Barcellona. Il padre ammette: «Qui non c’è futuro per mio figlio». Ancora non lo dice, ma si intuisce che vorrebbe ricevere una chiamata. La favola che torna favola. Si può ottenere asilo politico al Barcellona?
È una storia che intreccia guerra e social network, il circo mediatico e il cerchio della violenza in un Paese dove i bambini sono spesso le prime vittime. Bambini kamikaze, bambini vittime di attentati, bambini che rischiano di essere rapiti perché indossano una maglia di plastica la cui foto diventa «virale» in Rete. Maglietta benedetta o maledetta?
Forse conta il fatto che la famiglia sia di etnia Hazara, minoranza sciita perseguitata dai talebani: 15 anni dopo la cacciata da Kabul, quelli che una volta si facevano chiamare Studenti di Dio stanno riconquistando l’Afghanistan. Durante il loro regno, tra il 1996 e il 2001, il calcio era uno sport sconsigliato perché filo-occidentale, anche se non vietato. E lo stadio di Kabul era il luogo delle lapidazioni pubbliche.
È proprio nella capitale che il piccolo Murtaza ha viaggiato con i genitori nel febbraio di quest’anno: da un’esistenza anonima e grama nei campi di mandorle e albicocche del distretto di Jaghori fino agli uffici fortificati dell’Unicef, per ricevere di persona e in diretta streaming il regalo di Messi senior, che è ambasciatore dell’agenzia Onu per l’infanzia. La maglietta con la calligrafia di Leo recita: «Con mucho carino». Si parla addirittura di un possibile incontro tra la Pulce Pallone D’Oro e il piccolo Maglia di Plastica, quella maglia che il fratello quindicenne Homayoun, per farlo smettere di piangere, gli aveva fabbricato con un sacchetto azzurro e bianco. La sua foto presa di spalle era diventata un piccolo grande mistero su Twitter. Fans turchi avevano individuato Messi Boy in Iraq. Dopo ricerche e false piste la Bbc aveva scoperto la sua vera identità, in un campetto dissestato senza porte e senza rete nella remota provincia di Ghazni. Doveva restare una favola, con il suo sapore zuccheroso ma comunque a lieto fine, persa nel bollettino delle brutte notizie. Adesso è un’altra storia, l’ennesima, che racconta la faccia amara dell’Afghanistan.